Gore Verbinski
Quindici uomini sulla cassa del morto! Johnny Depp (flamboyant), Keira Knightley (bella e spiritosa) e Orlando Bloom (bof…) snudano di nuovo le spade. Forse ancora più bello de “La maledizione della prima luna”, “Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma” di Gore Verbinski è un film dall’inesauribile felicità di sceneggiatura (di Ted Elliott e Terry Rossio). E’ gustoso pure il dialogo (merita un plauso il doppiaggio italiano), dalla girandola di tempi verbali di Jack Sparrow che parla dei suoi rapporti con la strega agli eleganti rimpalli tra il pirata ed Elizabeth. Certo, manca qui quell’aspetto poetico legato al discorso del sogno che s’imprimeva sul primo film. Quando però (come nella prima trilogia di “Star Wars”) il cuore dell’eroina oscilla tra l’eroe ufficiale e l’avventuriero, allora, uscito dalla porta, ritorna dalla finestra il sogno anarchico della pirateria. In più, il presente film ha una particolare risonanza mitica. Voglio dire che, mentre nel film precedente i mostri (i pirati fantasma di Capitan Barbossa) erano solo l’illustrazione immaginosa di una bella idea di sceneggiatura, qui con Davy Jones e il kraken il plot si appropria di un preesistente grumo mitico, benché liberamente, trasformando il film nel quadro alla Doré di una cupa leggenda del mare.
“Pirati dei Caraibi” è visivamente delizioso - ed ecco un’altra occasione per ribadire di fronte a una critica distratta che il sottovalutato Verbinski è un regista di capacità visionaria superiore alla media. La bellezza visuale del film appare fin dalla triste apertura con la pioggia sulle porcellane e lo spartito, ed esplode, è ovvio, nella parte fantastica: la nave spettrale che si immerge e riemerge, inseguita dalla machina da presa, a riportare quell’avida moltiplicazione delle possibilità di visione che osservavamo anche nel primo film; o il volto mostruoso di Davy Jones, che riesce ad essere espressivo anche se è composto dai tentacoli di una piovra. Eppoi – anche a parte i trucchi e le fantasmagorie - non è sublime Jack Sparrow dipinto con una moltiplicazione di occhi sul viso quando diventa il dio-prigioniero dei cannibali? Quel suo viso “multiocchiuto” è surrealismo puro - e a noi italiani non può non ricordare i dipinti di Dino Buzzati (“Il colombre”). Il matrimonio tra fantasia narrativa e pregnanza visuale costella il film di dettagli memorabili. Come dimenticare il tenero e sfigato cannibalino minorenne? O la strega Tia Dalma, puro mix di sessualità e orrore?
L’azione - ipercinetica come vuole il cinema contemporaneo - esplora con umorosa coerenza la categoria dell’eccesso - vedi ad esempio il folle duello sulle rovine (son folli di per sé tutti i duelli del genere cappa e spada, in cui i contendenti fanno regolarmente il giro della casa: qui è solo un tantino esagerato) - in modo da fondere l’amabile parodia con la celebrazione.
Naturalmente “Pirati dei Caraibi” richiama e ingloba un’enciclopedia di suggestioni dell’universo piratesco, letterario e filmico. Ad esempio, la macchia nera che compare sulla mano di Jack Sparrow è un omaggio a Stevenson, abilmente adattato a tutt’altro contesto, magico-demoniaco, ma sufficiente a evocare all’istante “L’isola del tesoro”. Oppure: non sono solo i tentacoli del kraken a richiamare il “20.000 leghe sotto i mari” di Richard Fleischer (produzione disneyana pure quella!); anche l’immagine di Davy Jones che suona l’organo riporta a quel vecchio film. E la scena alla Tortuga, col suo movimento meccanico e ritmico, sembra alludere al “theme park” pupazzesco da cui è sorto il ciclo.
Questa trilogia piratesca “in fieri” possiede la grandezza narrativa e visionaria dei vecchi “Il Pirata Nero”, “Capitan Blood”, “Il corsaro dell’Isola Verde”, eccetera eccetera. Ci ricorda che la Hollywood dei blockbuster avrà prodotto di recente molti “filmoni” deludenti (da “Batman Begins” a “Superman Returns”, tanto per restare nella linea dinastica) ma sa ancora regalarci qualche classico futuro.
(Il Nuovo FVG)
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