martedì 8 gennaio 2008

Paparazzi

Neri Parenti

Inaspettatamente, dei tre brutti film italiani di fine anno il meno brutto è “Paparazzi” di Neri Parenti, il più modesto come intenzioni. Se non altro, fra l’abominevole “Il mio West” e l’incerta pappetta annacquata di “Così è la vita”, mostra qualche competenza cinematografica. Neri Parenti è un regista di scarsa originalità ma di tranquillo mestiere; come “regista di servizio” di Paolo Villaggio ha firmato una serie di opere sulla grande saga di Fantozzi, certo prive del nerbo dei primi due film (di Luciano Salce), ma realizzate con sicurezza. Almeno uno dei suoi film è sicuramente grandissimo: quella superba storia di Fantozzi attraverso i secoli che i produttori battezzarono scioccamente “Superfantozzi”.
Tirando fuori ogni tanto una piacevole vena di cattiveria fisica, che ricorda, di Parenti, “Le comiche”, “Paparazzi” narra l’epopea di un gruppo di fotografi - Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Christian De Sica, Nino D’Angelo, Roberto Brunetti - che lavorano per i settimanali di gossip, i pettegolezzi sulle persone famose, ricorrendo ai trucchi più infami e spudorati per carpire la foto (il film si lascia sfuggire un’immagine memorabile: l’obiettivo della macchina fotografica nascosta nei pantaloni che sporge, falliforme, dalla patta. Un’erezione basso-mediatica). L’aspetto fondamentale è che le vittime di questi paparazzi sono rigorosamente personaggi televisivi, che nel film compaiono a valanga nella parte di se stessi (sicché a tratti sembra “Scherzi a parte”); un paio di esterni come un calciatore entrano appunto come gossip (“fidanzato di...”). E con ridondanza tutta televisiva i loro nomi sono accuratamente inseriti nel dialogo, in modo che il meccanismo del riconoscimento sia rinforzato. Dunque in questo film lo spettatore è (tele)spettatore. Si rimanda totalmente alla tv, il gioco dei volti è comprensibile solo a chi vive di tv. Così, mentre film dei Vanzina quali “Vacanze di Natale”, “Yuppies” eccetera innestavano comici di origine televisiva come Greggio e Boldi su un impianto cinematografico, “Paparazzi” va oltre e crea un’autentica congiunzione frankensteiniana fra i media.
Potrebbe essere interessante questo intreccio di realtà e fiction, ma in realtà non è l’incrocio cinema/tv a dare al film il suo moderato interesse (troppo deboli queste icone, dalla recitazione imbarazzata; troppo superficiale il loro impiego). E’ l’impianto di commedia “vanziniana” sorretta dal mestiere di Neri Parenti. Voglio dire che - paradossalmente, vista la sua struttura - “Paparazzi” diventa più interessante e divertente quanto più scompaiono i personaggi televisivi, o restano come pretesto sullo sfondo; quello che importa sono gli sperimentati lazzi del gruppo protagonista, giocati con l’apporto di un paio di personaggi tv più legati alla recitazione e utilizzati più diffusamente, come Brigitte Nielsen e Alba Parietti. Abatantuono riprende il suo argot pre-Pupi Avati, impasto linguistico demenziale (travestito da vu’ cumprà, col suo accento da impunito: “Io so’ bielorusso - bielo russo dela Russia biela!”); Boldi e De Sica rifanno con impegno le loro maschere tradizionali; Nino D’Angelo sfrutta le sue inflessioni napoletane; solo Brunetti non si capisce cosa ci stia a fare. E’ il mestiere comico dei suoi interpreti - non l’apparizione di cosiddetti V.I.P. - a dare a “Paparazzi” il suo divertimento. Valgono il prezzo del biglietto Abatantuono che cerca di sedurre senza compromettersi un’orrenda brasiliana, o questi cinici mostri che insieme rovinano il matrimonio di Anna Falchi con trucchi crudelissimi, o soprattutto la sequenza del cieco, la cui felice audacia può ricordare la commediaccia alla Alvaro Vitali - e questo è un complimento, giacché si tratta di una grandissima pagina del nostro cinema di serie B.

(Il Nuovo FVG)

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