mercoledì 9 gennaio 2008

Pane e tulipani

Silvio Soldini

Dopo un inizio un po’ impacciato, troppo giocato sui luoghi comuni, “Pane e tulipani”, prima commedia di Silvio Soldini, prende ala e si assesta su un livello eccellente. Merito anche di una bellissima sceneggiatura - del regista con Daria Leondeff, già co-sceneggiatrice de “Le acrobate”- dal dialogo spesso fulminante (geniale l’idea dell’italiano ampolloso parlato da Bruno Ganz!): anche perché le battute sono giustamente pronunciate “d’une façon nonchalante” che dà loro senso e forza.
E’ notevole la caratterizzazione dei personaggi, in quella maniera divagante, per accenni, per accumulo, per osservazione di particolari, ch’è propria di Silvio Soldini. Non penso solo ai protagonisti (ottimi Licia Maglietta e Bruno Ganz) o ai personaggi principali, dalla “massaggiatrice olistica” Marina Massironi (finalmente convincente, fuori dai mediocri film di Aldo Giovanni e Giacomo) al fiorista anarchico Felice Andreasi, dall’idraulico-detective - il friulano Giuseppe Battiston - alla rassegnata ragazza-madre veneziana magistralmente interpretata da Tatiana Lepore. Pure i volti minimi risultano incredibilmente “giusti”: la timida cameriera della pensione, lo slavo che gestisce il folle albergo-barcone...
E oggetti “giusti”. Perché gli oggetti hanno peso nel cinema di Soldini, dall’agenda de “L’aria serena dell’ovest” alle statuine de “Le acrobate” - o qui, non tanto i tulipani che perdono i petali, di un simbolismo un po’ ovvio, quanto la fisarmonica che emerge dal bric-à-brac dell’appartamento di Bruno Ganz. Per inciso, nel film è effettivamente Licia Maglietta a suonare.
Tutti i film di Soldini parlano di scherzi del destino. In “Pane e tulipani”, Licia Maglietta viene dimenticata dal marito e dai figli in un autogrill durante una gita. Mentre fa, giustamente incavolata, l’autostop per tornare a casa, segue un impulso e decide di proseguire fino alla lontana Venezia, per “prendersi un giorno di vacanza” - ma naturalmente a Venezia (fotografata da Luca Bigazzi, un “regular” di Soldini) la sua vita si rovescerà come un guanto. Come impara la protagonista in questo film, perdersi è sempre una buona occasione per ritrovarsi. Ed è, Venezia, una città molto adatta per perdersi e ritrovarsi... Venezia è forse l’unica città la cui topografia somiglia a quella dell’inconscio.
Soldini - il quale ha sempre un occhio particolare per i personaggi femminili - ha sempre raccontato di personaggi dalla vita fissata nei suoi binari, che a un tratto entrano in crisi e cercano di costruirsi una nuova dimensione. Ma con più ottimismo in questo film, sorridente dentro il suo alone di tenue malinconia (è una commedia anarchica - ce lo ricorda il personaggio di Andreasi - ma senza faciloneria). Qui emerge in maniera convincente nel cinema di Soldini una vena grottesca, e non soltanto nei sogni “non segnalati” della protagonista. La sceneggiatura sfoga un umore grottesco e feroce su certi personaggi. Vedi il marito (Antonio Catania) e il figlio maggiore, egualmente rozzi e cretini. O vedi la grande pagina della partenza da casa dell’idraulico-detective, con la mamma piangente e la fidanzata mancata alla finestra - una pagina fra l’altro in cui il film riesce splendidamente a raccontarci di scorcio una storia non detta.
Potremmo definirla una “commedia di momenti”. Sono, quelli del film, i tempi sospesi, lenti, “aperti” di Soldini. Il suo sguardo attento e mutevole trova, mi pare, un riflesso nell’uso insistito, caratterizzante, della dissolvenza: forma che ritorna nel suo cinema ed è in particolare una costante linguistica di “Pane e tulipani”. C’è sempre qualcosa di misterioso, e di inquietante, nella dissolvenza in nero, qualcosa che viene dal suo carattere di ellissi dichiarata - sembra sempre evidenziare che si potrebbe dire di più; e questo si sposa molto bene col cinema divagante, sottilmente curioso di Silvio Soldini.

(Il Nuovo FVG)

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