mercoledì 9 gennaio 2008

Erin Brockovich

Steven Soderbergh

Un consiglio per gli spettatori (maschi, dico - o anche femmine interessate) di “Erin Brockovich - Forte come la verità” di Steven Soderbergh: guardate con attenzione le gambe e le poppe che Julia Roberts esibisce generosamente nella pellicola. Sono la sola cosa interessante che vedrete nel film.
Non bisogna pensare però che si esponga a titolo di risarcimento. Fa parte del personaggio protagonista del film (tratto da una storia vera). Erin Brockovich è una stangona sexy, ex Miss Wichita, senza particolare cultura, senza un soldo, con tre figli a carico avuti da due ex mariti. Lavorando come assistente presso il (dapprima riluttante) avvocato Albert Finney, porta alla luce un gigantesco scandalo ecologico. Alla fine, proprio grazie alla determinazione di Erin, la compagnia che ha rovinato la salute di centinaia di persone con l’acqua inquinata di cromo esavalente dovrà pagare un risarcimento di 333 milioni di dollari.
C’erano grandi possibilità nel film, vuoi sul piano del racconto, con la battaglia legale stile Davide e Golia (c’è più d’una analogia con “Il verdetto” di Sidney Lumet con Paul Newman), vuoi su quello dei personaggi: è un classico della commedia americana (basta pensare a Gregory La Cava), il concetto della ragazza di estrazione proletaria, tutt’altro che raffinata ma ricca di cervello e di cuore, che conquista nel lavoro (o nell’amore o in tutt’e due) l’uomo della classe sociale superiore. Grandi possibilità, che però il film non riesce a sfruttare. Non perché abbia scelto un approccio antiromanzesco, magari di stile documentario; anzi, è l’esatto opposto (la narrazione rientra in canoni estremamente tradizionali del cinema americano): ma perché la trattazione è goffa e spompata.
La mediocre sceneggiatura di Susannah Grant appare incapace di creare una personalità, di convogliare lo humour cui evidentemente aspira. In effetti Julia Roberts - che entra molto bene nella parte, e solo in un paio di passaggi lascia trapelare un accenno di recitazione manierata o leziosa - dovrebbe risultare simpaticissima, col suo approccio “matter of fact” di donna navigata e col suo divertente linguaggio sboccato. Invece il film stenta a suscitare la minima empatia.
Si capisce che quando si parla di famiglie dalla salute distrutta, di bambini malati et similia, il film non può che destare un interesse di adesione umana; è il solito “E se non piangi, di che pianger suoli?”; ma è l’argomento, non la trattazione, a colpire. Succede perfino in quegli orridi film televisivi di disgrazie assortite. E in effetti c’è molto di televisivo in questo film piatto, dal ritmo flaccido, anche a causa della regia loffia di Soderbergh. La costruzione drammatica è meccanica: la scena in cui Erin raccoglie le firme, con la sua enfatica “ripetizione eroica”, mi ha riportato ai tempi più bui degli antichi cineforum, ricordandomi “Occupazioni occasionali di una schiava” di Alexander Kluge - ma almeno Kluge voleva fare un’operazione “epica” di tipo brechtiano (non che ciò rendesse il suo film più interessante di questo di Soderbergh). E non parliamo poi dello sciagurato sub-plot sulla vita privata di Erin, con quel terribile boy-friend motociclista che sembra un Charles Manson capponato, in una terribile interpretazione di Aaron Eckhart (ho visto dei sassi più espressivi).
Nella sconquassata carriera di Steven Soderbergh, sembrava impossibile fare un film più brutto di “Kafka” (“Delitti e segreti”) ma il regista ci è quasi riuscito. Quasi, in verità, perché perfino “Erin Brockovich” si ferma a un paio di leghe di bruttezza da quello; ma a pensare come butta via l’indubbia carica di Julia Roberts... Del resto, cosa aspettarsi da un regista che aveva a disposizione George Clooney e Jennifer Lopez ed è riuscito, non dico solo a fare un thriller mediocre, ma a non rendere nemmeno la loro chimica sessuale, in “Out of Sight”?

(Il Nuovo FVG)

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