mercoledì 9 gennaio 2008

La mummia - Il ritorno

Stephen Sommers

Accade di rado che un sequel sia migliore del primo film (un esempio famoso è “La moglie di Frankenstein”, James Whale 1935, seguito del suo “Frankenstein” del 1931). E’ il caso de “La mummia - Il ritorno”, di Stephen Sommers, superiore al già gustoso e intelligente “La mummia” di due anni fa (nota che, come quelli di Frankenstein citati, sono film Universal. Questa casa di produzione ha, in fatto di mostri e creature risuscitate, davvero una lunga esperienza).
A partire dalla battaglia del Re Scorpione (D.D. “The Rock” Johnson) in apertura, lungo tutto questo film che è una parata trionfale della computer graphics si fa notare la velocità quasi indecifrabile degli scontri. Cosa già osservata due anni fa nella prima “Mummia” in relazione al montaggio. Non è solo enfasi narrativa; è il gusto di stupire l’occhio in un turbinio di forme, e in generale il gusto dell’estremizzazione computergrafica della realtà.
Perché in questo film la computer graphics non è un supporto all’azione umana (per esempio come in “Titanic” per moltiplicare i passeggeri). Esageriamo un po’ ma non siamo lontani dal vero se diciamo che l’azione degli esseri umani è una base, quasi un canovaccio, sulla quale inserire gli sviluppi mirabolanti generati al computer - ben più che in “Star Wars - La minaccia fantasma”. Non è certo una novità esclusiva de “La mummia - Il ritorno”, che però segna una tacca come “state of the art”, aprendo problematiche affascinanti.
Parliamo di una computer graphics che non guarda alla realtà fotografata come a un’istanza da servire. In questo film la computer graphics non si nasconde, anzi, si esibisce come imitazione riconoscibile in quanto imitazione. Nel momento che vediamo un uomo-scorpione di tre metri strisciare sulle pareti di un tempio egizio, la nostra emozione non è quel gusto del “trucco” di cui parla André Bazin in un famoso articolo sul “cinema dei mostri”, ma è più vicina al piacere del fumetto e del cartoon. In altre parole, e non è un cambiamento da poco per il cinema, la grafica ha la meglio sulla fotografia. Quell’aggancio fotografico al reale che sta al centro appunto della riflessione di Bazin si perde in favore della libertà svincolata, auto-generata del disegno. In questo senso “La mummia - Il ritorno” è cartone animato quasi alla stessa stregua di “Toy Story”.
Solo che a questa montagna di illusione gli esseri umani portano pur sempre in dote la loro carne. E quindi si crea uno strano status ambiguo, bicefalo - in cui il sentimento prevalente è comunque quello della meraviglia: meraviglia, più che per il racconto, per le forme materiali del racconto. “La mummia - Il ritorno” è dunque un piccolo perfetto esempio di estetica barocca dello spettacolo.
Gran parte di questo discorso valeva già per il precedente “La mummia”, la gradazione rispetto al film presente essendo non di qualità ma di quantità (però, diceva il vecchio Hegel, a un certo punto i mutamenti quantitativi si convertono in mutamenti qualitativi). Tuttavia non giace in questo la superiorità del sequel. Né in una sceneggiatura spiritosissima (delizioso l’impiego di Londra, del British Museum, di un classico bus rosso a due piani come luogo dello scontro), né in una buona costruzione del ritmo (più si va verso la fine più il film precipita in un incremento esponenziale della meraviglia); era spiritoso e ritmato anche il primo.
La superiorità sta nel fatto che “La mummia - Il ritorno” riesce a recuperare il discorso mélo (val la pena di ricordare che il mélo è sempre stato intessuto nell’horror, e qui è giusto allegare proprio “La mummia” di Karl Freund del 1932), che nel primo film esisteva come argomento, elemento della tessitura, ma indubbiamente non era sentito. In questo sequel invece riesce a farsi strada fino a emergere, imprevisto, sullo schermo. Non voglio svelare la fine, ma la morte di Imhotep/Arnold Vosloo è uno dei migliori momenti melodrammatici del recente cinema d’azione. E così le lacrime entrano nella computer graphics - e la rendono umana.

(Il Nuovo FVG)

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