mercoledì 9 gennaio 2008

Men in Black II

Barry Sonnenfeld

La parola “alien” in inglese ha oggi un doppio significato. Uno è naturalmente “alieno”, quello della fantascienza; ma il primo e originario è semplicemente “straniero”. Se voi siete un immigrato a New York, siete un “alien”.
E’ su questo doppio senso che si basa tutta la concezione di “Men in Black”: il primo film, del 1997, ed ora il gustoso sequel “Men in Black II”, sempre diretto da Barry Sonnenfeld. L’equiparazione umoristica dei due significati, gli alieni e gli immigrati - sia regolari che clandestini - giustifica sul piano narrativo l’esistenza di un ufficio che se ne occupi: i Men in Black; e noi non ne sappiamo niente solo perché a chi scopre qualcosa loro fanno sparire la memoria “sparaflashando” con un aggeggio che si chiama neuralizzatore.
Questo ci permette anche di capire perché “Men in Black II” sia un autentico peana a New York (compresa la divertentissima gag finale). New York è la più interculturale e cosmopolita delle città americane - proprio per questo il terrorismo di Osama l’ha scelta per il suo attacco - e dunque è la città più “alien” fra tutte. C’è una piccola scena geniale, a questo proposito, nel film. Tommy Lee Jones, l’ex partner di Will Smith, era stato neuralizzato e aveva perso la memoria (dicono di lui: “E’ morto?” - “Più o meno: lavora alle poste”). La ritrova, ed ecco che ai suoi occhi l’andirivieni sui marciapiedi di New York cambia aspetto: vede un piccolo alieno che si nasconde nel carretto di un robivecchi, vede spuntare da un vestito comunissimo una codina aliena, insomma scorge la segreta presenza extraterrestre. Non è che il “deneuralizzatore” che l’ha guarito gli abbia dato la capacità fisica di vedere cose invisibili. E’ che (fa sempre bene il cinema a ricordarcelo!) vede solo chi sa già cosa cercare.
Senza dover riconoscere al bravo Barry Sonnenfeld particolari caratteristiche autoriali, “Men in Black II” è un film sicuramente piacevole. Il suo carattere ipercinetico, che può apparire eccessivo, è legato al gusto moderno del cinema/videogame; che il film ne sia cosciente, lo mostra la battuta di Will Smith al partner sul GameBoy. Il dialogo è spiritoso, indovinati i personaggi (fra cui una Lara Flynn Boyle molto sexy, finché non comincia a rampollare rami-serpenti rivelando la sua natura di pianta carnivora travestita da top model), spassoso il “background” ripreso e ampliato dal primo film. C’è il consueto bagaglio citazionistico, da “Basket Case” a “X-Files”; bello in particolare l’inizio “metafilmico” che ricostruisce un vecchio telefilm con modellini di astronavi dai fili visibilissimi e una principessa extraterrestre che sembra parodiare la prima serie di “Star Trek”.
Il film ci ripropone una delle questioni più inquietanti tradizionalmente agitate dal cinema e dalla letteratura fantastica: noi sappiamo cosa sappiamo, ma non sappiamo cosa abbiamo dimenticato. “Men in Black II” è fortemente legato, come il primo film, al tema della memoria: al rapporto fra amnesia, ignoranza e volontà di potenza. Che c’entra l’ombra di Friedrich Nietzsche? Dico volontà di potenza perché - come un’astronave accelera in un secondo da zero alla velocità della luce - Tommy Lee Jones quando riprende la memoria passa in un secondo da zero umano a salvatore del mondo. Ma c’è di più: questo balzo ha una sua concretizzazione ancor più ricca di umorismo: da zero a Dio. Perché quando il rinato Man in Black apre una sua vecchia cassetta di sicurezza alla stazione, sorpresa!, ci trova dentro un intero popolo di alieni, con tanto di profeta, che vivono nel culto di lui venerandolo come divinità.
Quest’idea, che piacerebbe a Coleridge, è uno dei migliori scherzi paranoici del film. Naturalmente, anche noi forse siamo salvatori segreti del mondo e non lo sappiamo. E forse da qualche parte c’è la “nostra” cassetta segreta, con dentro il nostro microscopico popolo che eleva a noi le sue preghiere.

(Il Nuovo FVG)

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