mercoledì 9 gennaio 2008

La mummia

Stephen Sommers

Che nel 1929 il Cairo fosse stato investito dalle Sette Piaghe d’Egitto, e i suoi abitanti arabi tramutati in simil-zombi assassini che si aggirano scandendo “Imhotep! Imhotep!”, questo non lo abbiamo letto nei libri di storia. Ma chi se ne importa? Per dirla col giornalista de “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford: se la leggenda prevale sulla realtà, si stampi la leggenda! Questo è lo spirito del divertente “La mummia” di Stephen Sommers, remake Universal del capolavoro del 1932 diretto da Karl Freund e interpretato da Boris Karloff per la stessa casa di produzione (non dimentichiamo che negli anni ‘30/’40 la Universal era la casa dei mostri), e capostipite di una lunga fila.
Pieno di chiassosa intelligenza spettacolare, “La mummia” è un film gustosissimo, anche se beninteso non ha la profondità mélo del classico di Karl Freund e nemmeno del remake di Terence Fisher con Christopher Lee e Peter Cushing del 1959, benché recuperi “in toto” la storia d’amore che sta alla base di questa figura cinematografica (da segnalare l’apertura nell’antico Egitto con un potente pseudomovimento di macchina in computer graphics e, sempre in computer graphics, la stupenda ellissi che rende in due secondi il trascorrere dei millenni sulla statua del dio Anubi). Però qui il redivivo Imhotep (Arnold Vosloo) è integralmente mostruoso, oltre che dotato di superpoteri quasi divini (per avere i quali, tutte le precedenti mummie dello schermo, da Karloff a Chris Lee, da Lon Chaney jr. a Dickie Owen avrebbero dato il fasciato braccio destro!); poteri che lo rendono una minaccia non solo per la sosia della sua antica amata, com’è tradizione dei film di mummie, ma per l’umanità intera. Il mondo è stato salvato nel 1929 e non ce ne eravamo accorti.
Tutte le precedenti “mummie” sono state degli horror film. Non la presente, nonostante il diffuso impiego di elementi orrorifici (ma sempre in uno spirito “tongue-in-cheek”). E’ piuttosto un esempio della “deriva dei generi”, fatta di incroci, sovrapposizioni, ibridazioni, interferenze, ch’è propria del cinema post-classico (come di quello pre-classico). “La mummia” 1999 rientra completamente in quello spirito di avventura intrisa di fantasy con squarci horror, le cui coordinate sono state poste dalla capitale trilogia di Indiana Jones di Steven Spielberg. Servito da un ottimo lavoro su scenografie e costumi, il film intesse un grazioso recupero citazionistico e ironico di tutta una serie di maschere, di materiali, di “topoi” del cinema di avventura esotica, sul quale innesta i riferimenti al cinema horror e fantasy (Ray Harryhausen).
L’elemento orrorifico relativo alla mummia e ai suoi misfatti - fra l’altro questo film è un esempio di uso enfatico del sonoro - esprime una fantasia macabra che sarebbe “dark” se il film in cui appare non fosse follemente allegro: nel senso di “light-hearted”, cuorleggero. Un dialogo “snappy” e spassoso, non privo di un paio di divertiti riferimenti metafilmici; un gioco di attori autoironico e compiaciuto, nel quale la fiera bibliotecaria Rachel Weisz e John Hannah, più una serie di felici caratteristi, affiancano Brendan Fraser, un buon Indiana Jones di complemento che alla frusta di Harrison Ford ha sostituito una potenza di fuoco - un revolver in ogni mano - alla John Woo. Del resto, è d’una ritmata ipervelocità stile Hong Kong il montaggio del film (di Bob Ducsay). Le scene di scontri e di battaglie sono così frenetiche da essere, a tratti, quasi indecifrabili: sono esempli di movimento/balletto, guizzi dinamici e bagliori di spari, un incrocio della sparatoria con la danza: come nel kung-fu e nell’“heroic boodshed” hongkonghesi.
Come già accennato, in questo ottovolante di puro movimento e divertimento l’intensità classica si perde. Ma è un prezzo che ogni tanto siamo disposti a pagare.

(Il Nuovo FVG)

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