martedì 8 gennaio 2008

Oro rosso

Jafar Panahi

Accade sovente al cinema che si apprezzi un film per la sua pregnanza narrativa, senza osservare come questa pregnanza, solo implicita nella storia, venga materializzata nel discorso cinematografico con i suoi mezzi che sono in primo luogo visivi. E ciò succede tanto più facilmente con un cinema “di superficie” (esattamente l’opposto di superficiale: è detto nel senso di un’ingannevole semplicità) come quello iraniano. Bene lo mostra un film di alto livello quale “Oro rosso” di Jafar Panahi, film molto raffinato dietro la sua apparenza quasi di “pedinamento” neorealista.
Basta vedere la folgorante apertura, dove un uomo cerca di rapinare un gioielliere nel negozio buio, con tragico risultato. Impressionante, certo; e adatta a introdurre l’elemento di violenza inespressa, che bolle dentro, lungo tutto il film (poiché l’esplosione in apertura è un flash-forward, un’anticipazione del finale). Ma perché folgorante? Non per una questione di argomento, ma di inquadratura.
E’ un magnifico “surcadrage”, o la presenza di un quadro nel quadro. Entro l’inquadratura d’interno del negozio in oscurità (il dramma quasi invisibile è giocato sul sonoro) si apre il rettangolo chiaro della porta che dà sulla luce mattutina della strada. Questo secondo quadro “perfora” (rubo il termine a Jacques Aumont) il primo che lo contiene. Impositivo, drammatico, il “surcadrage” pone una serie di opposizioni. Due campi dell’immagine e due spazi: il dentro e il fuori (il negozio/la strada) su cui si gioca la sequenza. Ma anche due spazio-tempi solo apparentemente contemporanei: perché l’apertura - sbarrata - che separa il protagonista dall’esterno visibile ha anche il significato di una cesura irrevocabile fra il “prima” delle sue malinconiche peregrinazioni e l’”adesso” della perdizione. Di conseguenza, con facile scorrimento, due tempi del film: visto che la sequenza, l’abbiamo detto, è un flash-forward. E naturalmente, poi, il buio cavernoso del negozio è il buio della rovina; ciò che implicitamente apre una suggestione impressionante sul destino e la possibilità (dunque l’opposizione di quel rettangolo chiaro di strada incarna una diversa - e perduta - alternativa).
Spazi, tempi, dimensioni, proiezioni di ipotesi narrative: che sarebbero comunque presenti sul piano del racconto, ma che Panahi attraverso l’inquadratura materializza allo sguardo e visivamente “apre” l’uno all’altro. L’autore de “Il cerchio” ha sempre lavorato assai abilmente su queste aperture dell’immagine. Non posso non menzionare un altro esempio di “surcadrage” semplice e sorprendente nel film: il protagonista Hussein gira lungamente in moto, e il parabrezza semitrasparente è opaco, ma ovviamente possiede un’area circolare trasparente all’altezza del viso del guidatore; ora, la forte inquadratura frontale dell’uomo in moto esalta questo “buco” di trasparenza aperto ai nostri occhi, come incorniciando il viso cupo, duro, disperatamente impassibile del protagonista.
Alla base di “Oro rosso” appunto sta la maschera del viso di Hussein, perso in una stanchezza, un precipitare muto nella disperazione. Scritto da Abbas Kiarostami, “Oro rosso” allarga il dato sociale a un malessere esistenziale. La lamentela “Non ci ha nemmeno guardato”, come marchio della povertà, si amplia nella visione di Teheran come gigantesca città della solitudine; sul (non) guardarsi, sul (non) ascoltarsi, neanche fra parenti e fidanzati, ruota tutto il film (anche nella coraggiosa sequenza dell’agguato della polizia ai giovani che partecipano a una festa da ballo), fino all’episodio del ricco logorroico che Hussein, ospite trascinato in casa, non ascolta. Nella generale mancanza del comunicare i dialoghi, sempre entro un impianto realista, sfiorano il surreale, diventano quasi beckettiani. Intanto, di giorno e di notte, scorrono per Teheran autentici fiumi di auto - in un flusso trascinante che non è difficile assimilare al lasciarsi vivere senza scopo del protagonista.

(Il Nuovo FVG)

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