mercoledì 9 gennaio 2008

Ogni maledetta domenica

Oliver Stone

Un concetto della retorica antica, il “decorum”, può esser utile a spiegare come mai con “Ogni maledetta domenica” Oliver Stone ci abbia dato il suo miglior film. “Decorum”: la convenienza, ossia, semplificando molto, l’opportunità di adeguare lo stile all’argomento del discorso. Che in “Ogni maledetta domenica” (“Any Given Sunday”) è il football americano: forma “eccessiva”, isterica, iperviolenta di sport di squadra. E questo va benissimo d’accordo con lo stile di Oliver Stone, che ha come caratteristica principale l’enfasi e la logorrea dell’immagine (la sua moltiplicazione dell’immagine deborda dal film, invadendo lo spazio dei titoli di coda. Stone non vuole lasciare spazi inutilizzati). Basato su un eccellente montaggio (accompagnato da un bellissimo lavoro sul suono), l’isterismo dello stile di Stone si sposa assai bene all’isterismo intrinseco al football moderno. Di più, anche se sarebbe difficile parlare di “Ogni maledetta domenica” come di un film sobrio, tuttavia Stone non vi mostra quell’autocompiacimento che rovina gli altri suoi film. Un esempio qualunque dello stile iper-espressivo di Stone: quando nel corso della partita finale un avversario perde letteralmente un occhio in terra, il dettaglio dell’occhio strappato sull’erba è montato con corti zoom sul simbolo della squadra nemica, che è appunto un occhio in un triangolo. E, se lo spazio lo consentisse, sarebbe illuminante analizzare punto per punto la discussione a cena fra l’allenatore (Al Pacino) e il quarterback (Jamie Foxx), inframmezzata di citazioni di “Ben Hur” sul televisore (anche in spregio alla “continuity”).
Il film rende assai bene l’elemento di guerra ritualizzata insito nella sfida sportiva (scrivendone, mi accorgo che non c’è differenza di peso semantico fra “partita” e “combattimento”). Lo scontro assume, come nella guerra, un carattere definitivo. “Perdere è morire”, dice nel film un personaggio, e vale per tutti. Sul campo (parola valida egualmente per la guerra e per lo sport) esplodono i sentimenti bruti - primo fra tutti la paura. E le inquadrature delle ragazze pon-pon interlineate a quelle del combattimento (ce n’è una splendida, con le ragazze in controluce come silhouettes nere) ci ricordano il forte rapporto esistente fra guerra e sesso. Naturalmente la fascinazione visuale e narrativa trova la sua radice in una concezione moral/esistenziale maschile ed “hemingwayana” (“Solo il gioco conta per me - perché è puro”, dice il vecchio allenatore in seconda). Potremmo dire che Oliver Stone si rapporta al football come Leni Riefenstahl alle manifestazioni naziste. Un’adesione estetica, “di pelle”, si traduce implicitamente in un’adesione alla visione del mondo.
“Ogni maledetta domenica” descrive con sicurezza la doppia natura della necessità di vincere, in bilico fra lo spirito sportivo e il groviglio di interessi esterni che pesa sul gioco (rappresentanti di queste due istanze, in un’ottima interpretazione contrapposta, sono l’allenatore Al Pacino e la proprietaria della squadra Cameron Diaz). Attraversato dal tema della vecchiaia in sintonia con quello della trasformazione/degenerazione del football d’oggi, il film si struttura su una definizione psicologica tradizionale - i personaggi sono le maschere consuete del cinema sportivo - ma sentita seriamente, ed espressa in maniera convincente. E’ una grande pagina oratoria il discorso di Al Pacino, dal viso disfatto ma solenne, ai giocatori prima della partita decisiva; come ha scritto qualcuno, sembra Enrico V alla battaglia di Agincourt. E siamo tutti col quarterback nella sua disperata corsa finale per segnare, interlineata in dettaglio coll’accendersi delle lampadine che scandiscono gli ultimi spiccioli di tempo. Il cinema sportivo - lo esprime perfettamente un titolo famoso, “Quella sporca ultima meta” - il cinema sportivo sta sempre in questo tendersi estremo.

(Il Nuovo FVG)

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