mercoledì 9 gennaio 2008

La morte può attendere

Lee Tamahori

C’è qualcosa di magico e d’irreale nell’eterna giovinezza degli eroi seriali, come James Bond, che col discreto “La morte può attendere” di Lee Tamahori è arrivato al ventesimo episodio e compie 40 anni: è del 1962 il primo film, “Dr. No” (“Agente 007, licenza di uccidere”). Da un lato le avventure di 007 sono marcate da forti indicatori di contemporaneità: i suoi film sono una vetrina dell’“oggi” per definizione, anche se i suoi famosi gadgets per sembrare ultra-contemporanei devono spostarsi di qualche passo nel futuro. Idem per la situazione internazionale: entro lo specchio della cultura di massa i “cattivi” bondiani riflettono fedelmente le evoluzioni della geopolitica. Non per nulla quelli de “La morte può attendere” vengono dalla Corea del Nord, ossia dal regime più infame rimasto sulla faccia della terra (in confronto a Kim Jong-il e alla sua banda, Saddam è un gentiluomo anglosassone).
Dall’altro lato, l’eroe non è soggetto alla stessa determinazione temporale che condiziona i suoi film. Il tempo per lui non passa. Potrà imprimersi appena sul viso dell’interprete (il Pierce Brosnan d’oggi mostra gli anni in più rispetto al suo primo Bond, “Goldeneye”), ma quando occorre l’eroe ha la chance, negata ai comuni mortali, di mutare volto e corpo. Così però la continuità diegetica fra i vari film ci impone, non di credere al paradosso che la stessa persona ch’era giovane nel 1962 lo sia ancora nel 2003, ma - letteralmente - di non pensarci. Ossia tende all’estremo la nostra capacità di accettazione logica del racconto, la nostra “volontaria sospensione dell’incredulità”.
XL capitolo di 007! Inutile chiedere se c’è nel film un’adeguata solennità celebratoria. A parte il fatto che in una serie così lunga ogni episodio diventa una celebrazione di per sé, “La morte può attendere” giustamente elargisce citazioni rievocative. La più evidente è la memorabile apparizione di Halle Berry dalle onde marine, giustamente in soggettiva di Bond, che replica quella di Ursula Andress in “Agente 007, licenza di uccidere”. Ma il film ne è costellato, da “Goldfinger” (il laser, la conclusione sull’aereo in volo) a “Dalla Russia con amore” (la scarpa-killer di Lotte Lenya, che rispunta in un autentico museo bondiano) eccetera eccetera.
Entro il consueto quadro dei film di Bond, “La morte può attendere” - veloce, divertente, ben costruito - si permette anche qualche lepida esagerazione rispetto alla media. Vedi l’Aston Martin invisibile, o lo scontro a fuoco fra le due auto sul ghiaccio, che è puro cartone animato (ne è chiaro segno quando Bond travolge i due bruti in motoslitta e li fa letteralmente volare per aria). Certamente però il film non ha paura delle innovazioni. Lo mostra già il rovesciamento quasi sacrilego della classica sequenza bondiana pre-titoli, che tradizionalmente è un trionfale minifilm indipendente; qui invece la sequenza è legata al racconto principale, e si chiude con la cattura di 007, che “apre” a titoli di testa fuori dal canone: o meglio, che mescolano la tradizionale iconografia di silhouettes femminili con le immagini delle torture cui i nordcoreani sottopongono Bond. Tutto questo sviluppo - dopo una prigionia di 14 mesi Bond appare con barba e capelli lunghi degni del dumasiano Castello d’If - serve a mostrare un James Bond non dico più vulnerabile, ma più “vulnerato”, se posso usare il termine; il che è in generale un preciso apporto dell’incarnazione/Brosnan al personaggio.
Altra innovazione, Halle Berry: non una bellezza decorativa ma una bellezza combattente; più che una Bond-girl, una Bond femmina (che inevitabilmente ricorda le grandi “dure” negre dell’epoca della “blaxploitation” come Pam Grier). E’ un tentativo già sperimentato - senza troppa convinzione - nei film di 007, ma stavolta perfettamente riuscito. Halle Berry si guadagna tutto lo spazio che le dà il film - e sai mai che non sia lei, quel che maggiormente ci resterà nella memoria del ventesimo James Bond.

(Il Nuovo FVG)

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