martedì 8 gennaio 2008

Oasis

Lee Chang-dong

Giusto ora che s’è concluso con successo il Far East Film, dove abbiamo trovato nuova conferma dell’eccellenza del cinema della Sud Corea, esce un magnifico film coreano, fra i pochi film orientali a trovar posto nella distribuzione nazionale: “Oasis” di Lee Chang-dong (autore del non meno splendido “Peppermint Candy”), in programma questo mese di maggio al Ferroviario di Udine e a Cinemazero di Pordenone.
Nota di avvertimento tristemente necessaria: per parlarne mi baso sulla versione originale vista l’anno scorso alla Mostra di Venezia: Dio non voglia che i distributori italiani non abbiano sconciato il film, come hanno fatto di recente gli incommensurabili cialtroni che hanno distribuito in Italia “Shaolin Soccer” di Stephen Chow!
“Oasis” è un esempio dell’autorevolezza del cinema coreano, dell’impressionante ricchezza e intensità dei suoi quadri collettivi e delle sue raffigurazioni di tipi strambi entro una società dai rigidissimi legami sociali. Jong-du (Sol Kyung-gu), un bighellone semideficiente, appena uscito di prigione, conosce casualmente Gong-ju, una giovane paraplegica che i parenti lasciano sola in casa, e quasi senz’accorgersene le mette le mani addosso e la stupra. Di qui il film si sviluppa in una storia d’amore clandestina fra questi due emarginati. Attenzione, niente buonismo da tv movie italiano! E’ una storia di tenerezza lancinante e insieme di durezza intollerabile. Un paio di pagine - come la scena di Gong-ju che cerca di mettersi il rossetto e piange - non sono indegne di Luis Bunuel.
Necessariamente la prima cosa da menzionare è la sconvolgente interpretazione di Moon So-ri (presente anche in “Peppermint Candy”) nella parte della ragazza paraplegica, interpretazione che parte in termini di mimesi naturalistica ma poi si sviluppa ampliando la propria gamma fino a una totalità di esperienza che si traduce in vera poesia. Nel “tempo lento”, trascinante, proprio del cinema coreano, “Oasis” esplicita l’auto-riconoscimento sentimentale della ragazza - i cui sentimenti il film ci aveva mostrato all’inizio, oscillando elegantemente fra realtà e irreale soggettivo, in forma di potenzialità inespressa. E’ un’“uscita alla coscienza” (per lo spettatore al pari che per il personaggio) attentamente dipinta per gradi, in modo quasi positivistico. Così, in risposta al “Devi farti bella” di Jong-du che le lava i capelli, il “Sono bella come sono” di lei è una di quelle grandi battute strazianti del cinema che sono capaci di riassumere e concentrare nel breve giro di una frase l’intero senso narrativo e l’intero universo morale di un film.
Oscillando come abbiamo detto fra reale e irreale, “Oasis” attinge a quella capacità di visualizzazione non-realistica che rappresenta uno dei punti forza del cinema coreano e orientale. Sono visualizzazioni interiori come per esempio la sparizione delle ombre sul dipinto - l’“Oasi” - in camera della ragazza che la spaventavano. Lo stesso quadro si fa reale in una scena: è il punto di maggior rischio del film, non per il suo carattere soggettivo ma per un sospetto di poeticismo; che tuttavia sentiamo accettabile perché sa farsi accettare nel contesto, e sa commuovere. La bellezza del cinema coreano (e orientale) non è in primo luogo quel coraggio dei sentimenti, per cui è ancora capace di farci piangere?
Ancora in alcune scene di visualizzazione immaginaria di Gong-ju, che si vede normale e sorridente, il rovesciamento di prospettiva rientra nel racconto, ma altresì ha anche uno scopo esterno alla diegesi, e però egualmente necessario: mostrarci, come un termine di paragone, l’immagine “autentica” di Moon So-ri e come tale di mettere in luce la sua elaborazione interpretativa “deformata”. C’è qualcosa di Tod Browning in tutto ciò: la violenza della visione dell’Altro - il corpo deforme - e l’umanità ri/ottenuta non attraverso il fariseismo del “politically correct” e dell’autocensura sentimentale, ma nell’immediatezza del reale.

(Il Nuovo FVG)

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