martedì 8 gennaio 2008

La 25a ora

Spike Lee

Lo sguardo dall’alto - non solo come movimenti di macchina (dolly discendenti) ma come metafora - è la cifra de “La 25a ora” di Spike Lee. Lo sguardo dall’alto, che è lo sguardo dell’onniscienza, ma anche lo sguardo della morte. Non la morte in atto, di cui semmai la soggettiva dal basso evoca il terrore e la confusione, ma la morte compiuta (anche la morte del film: uno dei modi linguistici della fine del film è l’inquadratura dall’alto in allontanamento). Si vedono le cose dall’alto quando si lasciano.
Come tocca a Monty Brogan (Edward Norton), uno spacciatore di droga “upper class” che è stato beccato e condannato a 7 anni. Il film racconta il suo ultimo giorno, il suo addio ai luoghi e agli affetti (la sua donna, il padre, i due amici intimi); l’indomani mattina dovrà presentarsi alla prigione, dove è facile prevedere che sarà picchiato e violentato fin dalla prima notte. Così la sua vita non è sospesa, come gli dicono gli amici senza crederci neanche loro: è finita.
Lo sguardo della morte cade su Brogan ma anche su New York dopo l’11 settembre: ecco la sconvolgente sequenza di Ground Zero, la ferita aperta nella città, sequenza di indicibile drammaticità nel “documentarismo” oggettivo della visione. Ed ecco due drammi che si rispecchiano a vicenda. Sarebbero imprecisi termini quali allegoria o metafora; giacché Spike Lee costruisce il film (sceneggiato da David Benioff) su una dimensione dantesca, par giusto dire che la tragedia di Brogan è “figura” di quella di New York, nel senso medievale e dantesco del termine. E’ proprio questa capacità di riflettere il generale nel particolare che dà la sua alta statura artistica al film, probabilmente il migliore di Spike Lee a tutt’oggi - e il primo grande film che l’America abbia prodotto sulla sua nuova Pearl Harbor.
E’, quello di Brogan e nostro, un tour guidato dell’anima, culminante nelle scene “infernali” della discoteca - un climax allucinato pari solo al balletto sulla morte che chiude “All That Jazz” di Bob Fosse (1979), che cito qui come l’unico esempio che mi viene in mente di una simile “densa”, disperata, rutilante celebrazione della fine (“Bye bye, happiness / Welcome, loneliness / I think I’m gonna die”). In questo giro Brogan fa i conti con se stesso. Anche i suoi due amici (la figura della donna è più sfumata) devono farlo, per contagio. Fin dall’asciutto inizio col cane ferito, “La 25a ora” è un film di alta, impressionante moralità.
Ecco dunque il “quasi rap” rabbioso davanti allo specchio - illustrato da Spike Lee con la sua migliore libertà figurativa - dove Grogan maledice tutte le etnie e le culture di New York; compresi i negri e i loro lamenti (“la schiavitù è finita da 137 anni”), e questa non è una novità dello sguardo lucido e critico di Spike Lee. Senza dimenticare Osama, coll’augurio di passare l’eternità all’inferno “con le sue 72 puttane”. Ma poi conclude che la colpa della sua disgrazia è solo sua. E quando più tardi parte per la prigione, rivediamo con lui quelle stesse facce “etniche” guardarlo sorridenti - e lui risponde alla loro umanità.
Possiamo così dire di avere assistito a una rinascita. Ciò giustifica la larga, audace, commovente parte immaginaria che chiude il film, una fantasia di scappare nell’Ovest, visualizzata sulla voce “over” del padre: che non è un semplice sogno di evasione, quanto la sanzione fantastica dell’innocenza recuperata - ma che avviene nella dimensione non fattuale della 25a ora, quella della possibilità. Parimenti Spike Lee pone nel dolore un’ipotesi di rinascita anche per New York. La 25a ora esiste anche per le città, nel loro tempo ampio e diverso (“Più vasto degli imperi e più lento”, per citare Andrew Marvell, che con altri versi compare nel film per ricordarci la fugacità delle cose).
Per questo usciamo con un’inusuale commozione dalla visione del film. Magari non ce ne rendiamo subito conto, ma abbiamo assistito, e interiormente partecipato, a un rito religioso di sacrificio e purificazione.

(Il Nuovo FVG)

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