Brian De Palma
“Quando n’apparve una montagna, bruna / per la distanza, e parvemi alta tanto / quanto veduta non avea alcuna”. Questi versi di Dante (Inferno, XXVI) sono singolarmente adatti per introdurre il bel film di Brian De Palma “Mission to Mars”: dove una montagna che si trasforma in un vortice annichila gli astronauti della prima spedizione su Marte; e dove lo sviluppo pone un discorso, se non metafisico, almeno relativo alla base dell’esistenza umana.
Film di fantascienza robusto, importante, benché non fra i maggiori del regista (non è, com’è noto, un suo progetto). Il suo limite è la sceneggiatura, pesante nei dialoghi, di Jim Thomas, John Thomas e Graham Yost. Di conseguenza “Mission to Mars” è lento a impadronirsi realmente dello spettatore; ma quando lo fa, la presa è forte. Non sorprende che ciò accada col trasferimento dell’azione nello spazio (per inciso, il film contiene una delle ellissi più poderose di tutto il cinema americano: l’esclusione di tutta la parte “canonica” della partenza; l’azione si sposta direttamente su Marte e nella stazione spaziale). Le scene nello spazio sono splendide; non hanno da invidiare niente per tensione emotiva a quella famosa di Tom Cruise penzolante nel vuoto in “Mission: Impossible”.
Molte sono le immagini e le suggestioni citate e ri/combinate da Brian De Palma, fedele alla sua poetica, dove un gioco di immagini generatrici richiama tutta una costellazione emotiva. Il vortice ricorda le immagini di David Lynch dei vermi della sabbia di “Dune”, la bandiera americana rialzata da terra dagli astronauti evoca la famosa foto dei marines a Iwo Jima (ripresa nel film di Allan Dwan); mentre naturalmente l’impianto della seconda parte, col suo tema del messaggio sonoro, richiama - fra tutti i film “di contatto” - “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Un discorso particolare va fatto poi per “2001: Odissea nello spazio”. Le immagini di “Mission to Mars” lo ricordano di continuo: i corridoi della stazione spaziale, la camminata in una sezione rotonda in assenza di gravità, le scene in cui Tim Robbins lavora nello spazio per riparare i danni allo scafo, il riflettersi delle luci sul casco spaziale, per non dire dell’equivalente della “stanza bianca” alla fine... Non voglio sostenere qui che De Palma abbia voluto fare un remake di “2001”, operazione impossibile oltre che estranea al regista. Semplicemente, “Mission to Mars” è una trasposizione a livello di racconto popolare di temi e di motivi visuali kubrickiani: che poi a De Palma non interessano tanto per la loro origine, come omaggio a Stanley Kubrick, quanto per il fatto di essersi potentemente fissati come moduli iconografici nell’immaginario filmico americano. Non sarebbe sbagliato dire che De Palma usa qui Kubrick come aveva usato Ejzenstejn in “The Untouchables” - solo, con più estensione e dunque più in profondità.
Però una reminiscenza cinematografica tra tutte sale prepotente alla memoria, nel vedere “Mission to Mars”. E’ John Wayne che parla alla tomba della moglie morta, ne “I cavalieri del Nord Ovest” di Ford, contro un cielo rosso fiammeggiante: un cielo - diremmo ora, freschi di visione di questo film e dei suoi colori - marziano. Proprio contro un cielo marziano, nel rosso fiammeggiante dell’“Angry Red Planet” di tanti film di fantascienza, si stagliano le figure di Gary Sinise e dei suoi compagni che rendono omaggio alle tombe degli astronauti morti (le tombe vuote, salvo una, giacché il vortice li ha fatti a pezzi, ma le tombe). Un omaggio ai sepolcri: una scena classica del western.
E vale la pena di riflettere sui legami tra la fantascienza e il western: perché, prima ancora che il termine fantascienza fosse inventato, cos’è stata per gli americani la conquista del West se non una Conquista dello Spazio? Così, il western sta alla base di tutto. E col western l’alieno/indiano, come oggetto immaginario, come sogno impossibile dell’abitatore primevo, che possa riconciliare con l’innocenza originaria e perduta. Come qui.
(Il Nuovo FVG)
martedì 8 gennaio 2008
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