lunedì 7 gennaio 2008

Million Dollar Baby

Clint Eastwood

Ogni grande film americano ha un suo padre spirituale fra i giganti del cinema Usa: non imitazione ma filiazione. E c’è un nome preciso da spendere per lo sconvolgente capolavoro di Clint Eastwood “Million Dollar Baby”: Howard Hawks. Alla base del cinema di Hawks c’è la nettezza: del racconto, dell’inquadratura, del dialogo, della moralità. Tutto questo lo ritroviamo nel film presente. Hawksiano, Clint Eastwood lo è sempre stato; ma questo film sulla boxe femminile, storia di un allenamento e di una carriera pugilistica che finisce tragicamente, raggiunge un livello vertiginoso per il modo in cui tutto è “asciugato” in composta purezza. I suoi dialoghi “matter of fact” hanno una secchezza hemingwaiana (sceneggiatore Paul Haggis dai racconti di F.X. Toole).
Questo non è cinema che parla di se stesso; è un cinema che parla di persone vere. Un allenatore di boxe, Frankie/Clint Eastwood, che ha perduto l’amore della figlia, le scrive ogni settimana ma lei manda indietro le lettere, e lui le conserva in una scatola che è come una cassaforte del senso di colpa. Una ragazza cresciuta nella povertà, Maggie/Hilary Swank, che sogna il ring con una sorta di cupa disperazione, e diventerà per lui una figlia putativa. Il film mette al centro il tema della paternità, non oscurato ma semmai sottolineato dal pudore classico di Eastwood; però per lacerante contraddizione il padre può essere anche quello che ti aiuta a morire. Le buffe discussioni teologiche con cui il cattolico Frankie esaspera il prete svoltano drammaticamente nel grande confronto finale quando lui deve affrontare la scelta definitiva: l’eutanasia. Voce narrante, Eddie/Morgan Freeman, un vecchio ex pugile cieco di un occhio che filosofeggia in questa palestra scassata (asciutto humour dei suoi dialoghi con Eastwood!).
E’ un cinema di esseri umani che (ancora, hawksianamente) fanno bene il proprio lavoro. Sta qui l’inseguire il sogno, per l’antico regista come per l’attuale: saper fare le cose e avere il coraggio di farle; ecco il significato del cartello sui “winners” e i “losers” appeso nella scalcinata palestra di Frankie (tipico di lui, Eastwood come regista non ci indugia sopra, non gli concede un primo piano; chi vuol leggerlo lo legga). Le sfide nascono dalla necessità. Dopo averle fermato provvisoriamente nell’angolo del ring l’emorragia dal naso spaccato, Frankie avverte Maggie: “Hai solo 20 secondi”.
La crudezza di alcune scene (questa del naso rotto in combattimento e aggiustato lì per lì sfiora i limiti dell’intollerabilità visiva) hanno la stessa natura realistica - né censurata né compiaciuta - della famosa “crudeltà” hawksiana. Severo, malinconico, coraggioso, virile, “Million Dollar Baby” trasfonde la narrazione in pura evidenza.
Sugli accordi di chitarra che aprono il film entra la voce narrante di Morgan Freeman, profonda, saggia, triste. Dispensa detti gnomici, che concentrano la realtà della boxe e dell’esistenza. La voce narrante parla al passato (“A Maggie piaceva metterli tutti al tappeto al primo round”): cioè di qualcosa di “già dato” rispetto all’illusorio presente della narrazione filmica; come nei grandi noir americani, la voce narrante annuncia il trascorso, l’irrevocabile.
Essendo un cinema del togliere, quello di Eastwood è anche un cinema del non detto. Eastwood tratta i suoi spettatori come adulti, che non hanno bisogno di sentirsi spiegare tutto. Non ci viene mai svelato qual è la colpa di Frankie verso sua figlia. Parimenti, il destino della sleale pugile colpevole (lo spettatore vorrebbe saperla svergognata, squalificata, magari arrestata) è lasciato nell’ombra con un disprezzo assoluto. Altre sono le cose importanti.
Racconto tragico, dove i visi emergono da forti ombre nere (nessun regista sa fotografare il buio come Clint Eastwood); ma in Eastwood non c’è né il pietismo né il patetico. Solo lo scavare dentro le personalità - non intellettualisticamente ma attraverso le scarne parole, gli atti, i visi - che trasforma il suo cinema in altissima moralità.

(Il Nuovo FVG)

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