Ferzan Ozpetek
Nonostante quel che dicono molti spettatori, non si può affermare che il nuovo film di Ferzan Ozpetek “Cuore sacro” sia spazzatura al cento per cento. In realtà qualche breve attimo si salva, in questo confuso, sconclusionato, faticoso affastellamento di linee narrative: la ricca che si pente e va tra i poveri e poi impazzisce; la storia pregressa della madre confinata in camera dalle perfide zie; più vari fili sparsi abbandonati, quale la storia col barbone flippato e assassino; più il nebuloso discorso sulla religione con la metafora del doppio cuore; più l’incontro con la bambina ribelle che ruba per bontà (un autentico sbandamento narrativo); più, come direbbe De Filippo, “Questi fantasmi”, che appaiono dopo 50 minuti di film (e da 45 minuti ce li aspettavamo!) e anche loro, poveracci, vengono abbandonati dalla narrazione lì per lì... Insomma in “Cuore sacro” si trova tutto e il contrario di tutto.
Il che non è in sé illegale. Purtroppo, a livello di sceneggiatura (firmata dal regista con Gianni Romoli), “Cuore sacro” è il più televisivo dei film di Ozpetek finora. L’antipaticissima bambina? E’ la solita figura del bambino/adolescente/giovane “difficile” che ossessiona la nostra fiction tv. La zia senza cuore cui dà volto Lisa Gastoni? E’ la solita “bitch” cattivissima delle soap (che però almeno a volte ci mettono un tocco di autoironia: la Perfida Alexis di “Dynasty”, Sally Spectra di “Beautiful”). Il prete benefattore? Il solito belloccio televisivo, con occhi azzurri che sembrano la pubblicità del collirio. Il flippato, che sembra Andy Luotto in “Grunt!”? Normale amministrazione pure quello. E ancor più televisive sono le insopportabili battute “risonanti”, para-poetiche, che la bambina e la ricca in via di sviluppo si scambiano continuamente. Ovvero: il film è inferiore alle sue ambizioni.
Lo sviluppo drammatico fa cadere le braccia. Evidentemente, un personaggio teatrale o cinematografico non crea l’azione: non è vivo, si sa, è una marionetta mossa dall’autore. Tuttavia questa è la regola base della drammaturgia: si deve produrre l’impressione che sia proprio il personaggio a creare l’azione, in maniera verosimile. Qui invece la protagonista (Barbara Bobulova) galleggia sulle esigenze della sceneggiatura come una bottiglia in mare galleggia sulle onde. Un ulteriore problema è che, anche quando il plot la mette di fronte alle peggiori miserie umane, Barbara Bobulova è inespressiva come certe olimpiche bellone del cinema passato, da Marisa Mell a Carol Alt. Almeno Marco Bellocchio ne “Il principe di Homburg” aveva sfruttato i suoi limiti a esiti di grande astrazione epica.
Ma allora cosa si salva? In primo luogo, l’occhio di Ozpetek, grazie al quale si realizza il paradosso di un brutto film girato bene. Perché Ferzan Ozpetek non è Giovanni Veronesi; ha un certo talento, che si esprime in bei dettagli visivi: l’occhio di un angelo (una statua policroma) che brilla furbesco nell’ombra, una carrellata drammatica di facce smunte di senzatetto... Inoltre, come si può parlare interamente male di un film che d’improvviso inserisce un’accurata citazione della scena della piscina del classico “Il bacio della pantera” di Jacques Tourneur? Infine, in alcuni rari passaggi il racconto stesso sfiora un tocco di intensità.
Solo che Ozpetek ha una specie di tendenza a farsi del male. Come raggiunge un momento di verità, non resiste alla tentazione di rovinarlo accumulando, esagerando - è il vizio di credersi un genio o è masochismo puro? Così, dopo una scena passabilmente autentica e commossa in cui la protagonista nel metrò regala i suoi gioielli a una mendicante negra, deve seguire quella, ridicola, di lei che si spoglia fino a restare tette al vento e dona ai passanti, a chi la camicetta, a chi le scarpe coi tacchi a spillo. E su tutto quanto piombano come macigni certe entrate di musica orribili, perché retoriche, ammiccanti, effettistiche. Ma è un film a favore della carità o della sordità?
(Il Nuovo FVG)
lunedì 7 gennaio 2008
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