sabato 12 gennaio 2008

Matrix

Larry & Andy Wachowski

Se fate caso al titolo del capitolo sulla pagina a fronte di quelle scavate, nel libro-nascondiglio di Keanu Reeves, all’inizio di “Matrix”, è “On nihilism”, sul nichilismo. Il particolare contiene tutto il bel film fantascientifico dei fratelli Larry e Andy Wachowski (pieno di “inner jokes”, anticipazioni, rimandi, allusioni cinefile, strizzatine d’occhio allo spettatore). Infatti “Matrix” è una gustosa esercitazione paranoica sul nichilismo, non in senso morale ma filosofico: niente esiste. Prendete nota: quello che noi crediamo essere il nostro mondo e il nostro tempo (in realtà sono passati oltre cent’anni dal 1999) è un’illusione sensoriale indotta da un programma cibernetico, e in realtà viviamo in una sorta di inferno, schiavi delle macchine - un panorama rispetto al quale le peggiori invasioni aliene delle fantascienza passata impallidiscono. La visione dei campi di bambini coltivati (graficamente il punto più alto del film) non sarebbe indegna di Doré.
Fedeli al loro stile “hip”, ipermoderno, “hongkonghese”, i fratelli Wachowski riempiono “Matrix” di belle inquadrature estremiste. Riprese “eccessive” perpendicolari dall’alto o dal basso, audacie visuali come il gioco di riflessi tra il grattacielo e l’elicottero; tutto richiama il loro ottimo film d’esordio, “Bound”. Le feroci macchine dominatrici hanno forma d’insetto meccanico, e c’è una ragione. “Matrix” gioca abilmente sui nostri terrori; per esprimere a livello di pelle la paura delle macchine, il film la trasforma in entomofobia, paura degli insetti, dando alle macchine corpi e movimenti da insetto (o comunque da animali primitivi, come la seppia). Per inciso, ciò gli consente di ricondurre all’origine, con vero humour nero, il termine invalso per i microfoni spia, “bug” (in italiano “cimice”). Viceversa i protagonisti umani hanno sulla nuca un “plug” per collegarsi al computer. Esempio di cinema barocco, “Matrix” esprime in forme orrorifiche l’incrocio fra il biologico e il meccanico. Di cui una forma estremista sono i Guardiani, in apparenza uomini, in realtà “programmi senzienti”, colmi di razzismo nei nostri confronti (“Mai mandare un essere umano a fare il lavoro di una macchina”, sibila sprezzante il più cattivo di tutti).
Il film contiene numerosi riferimenti allo stato di incertezza fra sogno e realtà (come testo esemplare cita, invero un po’ pesantemente, “Alice” di Lewis Carroll); con divertente rovesciamento il capo dei ribelli (Laurence Fishburne), ossia l’uomo che risveglia, si chiama Morpheus. Naturalmente alla base di “Matrix” sta l’opera - seminale per tutta la fantascienza moderna - del grande Philip K. Dick. Pur senza essere tratto da una sua opera, questo film è un’illustrazione perfetta della sua concezione. Anzi, proprio “Matrix” ci consente una riflessione: il cyberpunk non ha fatto che fornire una “base” tecnologica fondata sulla cibernetica all’ossessione nichilista dickiana.
Ovviamente questo futuro nero, degradato, oppressivo, claustrofobico richiama - qui potremmo coniare il termine “fantadegrado” - “Blade Runner”, “1984”, “Brazil”, “Essi vivono”, “L’esercito delle 12 scimmie” eccetera. Oltre che gli “anime” giapponesi: tanto per chiarire che non si tratta di un film filosofico ma di un puro, veloce, gasatissimo racconto fanta-avventuroso. C’è un marcato riferimento ai videogiochi, ed è forte il legame col kung-fu, coreografato da Yuen Wo Ping col supporto di una troupe di Hong Kong (l’istruzione di sgombrare la propria mente in combattimento volgarizza i principi Zen presenti nelle arti marziali). Del resto, come accennato, “Matrix” è fortemente influenzato dal cinema di Hong Kong in generale. E l’ultima parte, con la sparatoria di Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss alla riscossa nei loro impermeabili neri, è puro “heroic bloodshed” post-John Woo - formula, temo, un po’ criptica per i non hongkongofili. Pardon.

(Il Nuovo FVG)

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