venerdì 4 gennaio 2008

Marie Antoinette

Sofia Coppola

Ogni film storico per quanto attiene al mondo psicologico dei personaggi rimanda alla sensibilità contemporanea, per accurata che sia la messa in scena (che comprende anche i tratti comportamentali, non solo i costumi). Una psicologia d’epoca precisa e integrale, quand’anche fosse possibile, non sarebbe rappresentabile.
La tensione fra ricostruzione rievocativa e proiezione di sentimenti moderni può riflettersi persino sulla messa in scena stessa. Due esempi: l’onesta illustrazione, da classico “tableau” Metro-Goldwyn-Mayer, nel commovente “Maria Antonietta” (1938) di W.S. Van Dyke con Norma Shearer contro l’aggressiva immissione, straniante, di oggetti moderni nel “Caravaggio” (1986) di Derek Jarman.
Contrariamente a quanto può far pensare la sua relativa accuratezza storica, il geniale “Marie Antoinette” di Sofia Coppola è più vicino a Jarman che a Van Dyke. Da un lato la regista e sceneggiatrice riproduce il quadro storico con intelligente concentrazione (solo neo grave, e qui quasi inspiegabile, le solite scritte in inglese). Dall’altro, traspone nella situazione storica con particolarissima audacia e modernità i suoi consueti temi dello spaesamento e dell’adolescenza.
Anche Maria Antonietta (l’eccellente Kirsten Dunst) è una “vergine suicida” come quelle del primo lungometraggio dell’autrice, e cerca freneticamente di fiorire in un ambiente che le nega l’aria e la luce per sopravvivere (in tutti i personaggi di Sofia Coppola si trova più qualcosa della pianta che dell’animale errabondo). Maria Antonietta non morirà a Versailles, ma è comunque perduta - e sappiamo che più tardi verrà assassinata da quella rivoluzione francese che è il primo laboratorio del totalitarismo moderno. C’è una scena centrale nel film, quando la regina, che ha appena compiuto 18 anni, e i principi corrono a veder sorgere l’alba. Non solo la situazione ma lo stile di inquadratura ci sono familiari: li abbiamo visti in tanto cinema sull’adolescenza; la grandezza di Sofia Coppola è di riportarli con commossa sicurezza a una condizione storica che siamo abituati a pensare in tutt’altro modo. Una Corte di Francia composta di giovanissimi inquieti - e le atmosfere del suo primo film. In linea con esso, quella luce del primo sole che si riflette sull’acqua è un bagliore che annuncia la rovina.
Ed è anche, la giovanissima principessa austriaca scaraventata nella gelida corte di Versailles, sposa a un giovanotto impacciato e semimpotente, “Lost in Translation”: proprio come Bill Murray e Scarlett Johansson in Giappone nel secondo grande film della Coppola (cui per una volta la distribuzione ha avuto ragione a mantenere il titolo inglese per il suo doppio senso). A inizio film la protagonista (ci) lancia un improvviso, imperativo sguardo in macchina; e questo sarà elemento ritornante del film: il continuo guardare verso il controcampo è, sì, connesso all’occhio spettatoriale ma anche evoca il potere oppressivo e ineluttabile dello sguardo onnipresente a Versailles, dove l’intimità è negata.
L’apporto forse più innovativo di Sofia Coppola è la scelta della musica rock, che splendidamente sottolinea la natura del film come storia psicologica di una “ragazza Marie Antoinette” ch’è incredibilmente nostra contemporanea. Ciò che, inutile sottolinearlo, ci dicono già i titoli di testa, violenti nella loro distanza dalle retoriche enunciative del film storico: musica rock, grafica moderna, cartelli su bande lillà.
La generale oggettività dello sguardo della macchina da presa, che considerando anche gli altri film sembra una cifra stilistica della regista, dialoga con momenti soggettivi come il brevissimo passaggio allucinatorio quando viene evocata la famosa battuta apocrifa sulle brioches e Maria Antonietta, volto puttanesco e rossetto nero, assume i tratti demoniaci della “leggenda nera” costruitale addosso dai pamphlet. Con la ricchezza della sua regia Sofia Coppola si conferma degna figlia di Francis Ford C.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: