venerdì 4 gennaio 2008

Il labirinto del fauno

Guillermo Del Toro

“Ho visto una fata!”, grida la ragazzina scoprendo nel bosco un insetto alato enorme, dal corpo allungato, alquanto ripugnante. E infatti: poi vedremo che è veramente una creatura del Piccolo Popolo. In una Spagna 1944 congelata e mortuaria (ricorre nel film l’ossessione di conoscere l’ora della morte del padre) si consuma la vicenda dell’adolescente Ofelia che rifiuta di crescere, legge solo fiabe e precipita nel loro mondo inquietante. La narra il passabile ma indeciso “Il labirinto del fauno”, film spagnolo scritto e diretto dal messicano-hollywoodiano Guillermo Del Toro.
Mi spiace di non avere ancora visto “La spina del diavolo”, il film del 2001 con il quale Del Toro aveva già sperimentato la commistione fra l’horror e le atmosfere della guerra civile spagnola. Anche “Il labirinto” coniuga la dimensione storico-realistica (il feroce capitano franchista Vidal dà la caccia agli ultimi ribelli nei boschi delle montagne) con quella fantastica e fiabesca. L’orrore degli uomini si incrocia con quello dei mostri. Naturalmente il film pone un’ambiguità: è una dimensione “altra” e segreta dell’esistenza o coincide coll’inconscio di un’adolescente disturbata?
Sebbene la logica interna sia talvolta forzata, e le psicologie ovvie, il côté realistico
è sentito e convincente. Recupera tutta una serie di motivi sovente ritornanti nel cinema spagnolo di rievocazione d’epoca: le vecchie case, i tetri riti borghesi, i preti ambigui e crudeli, la pioggia che sgocciola dal tetto, gli oggetti polverosi - un’atmosfera di vecchio e umido, triste e oppressivo, dove un odore di muffa sembra promanare dalla pellicola stessa. Il côté fantastico sul piano figurativo funziona bene (però il fauno, sarà pure mezzo ligneo per natura, ma ha un movimento meccanico che ricorda le creature meno felici di Carlo Rambaldi); tuttavia il film risulta a volte un po’ rugiadoso (i discorsi di Ofelia al fratellino non ancora nato), a volte ingenuo. Poiché c’è un’ingenuità che è pertinente al mondo della fiaba, ma diventa una sciocchezza quando viene materializzata in un contesto attuale: la principessina delle fiabe, che contro tutti i buoni consigli si lascia tentare da un chicco d’uva, diventa psicologicamente implausibile quando si incarna nella concretezza fisica della protagonista (che gode dell’uva ignorando e scacciando le fate che le turbinano intorno mentre il mostro le si avvicina alle spalle).
Oppure: in un film realistico fino alla brutalità, si resta perplessi quando il capitano Vidal esibisce una guancia appena squarciata che non sanguina (trionfo della gommapiuma!) e gli fa una bocca enorme: la scena sembra più occhieggiare al Miike Takashi di “Ichi the Killer” che proseguire il discorso del film. A meno che non si volesse arrivare a una fusione finale tra le due linee trasformando Vidal in un mostro anche in senso proprio, oltre che psicologico (e allora il riferimento a Miike sarebbe ancora più fondato). Ma ciò non succede affatto. Tra realismo storico e fantastico, s’intuisce la tentazione del film di postulare un maestoso rispecchiamento della prima dimensione nella seconda (o persino di stabilire una similarità fra gli eventi nell’uno e nell’altro? C’è una chiave che cambia di mano in entrambi i mondi). Il progetto purtroppo non riesce.
Guillermo Del Toro è un regista ambizioso, e ciò lo danneggia (non per nulla i suoi film migliori sono i più “fumettistici”, “Blade II” e “Hellboy”). Buon artigiano, possiede capacità narrativa e una discreta forza evocativa sul piano visuale; ma è, per così dire, un regista dell’esterno - non dell’interiorità. E’ efficace nel narrarci “cosa succede” (che siano le torture dell’ufficiale franchista sui prigionieri o un mostro con gli occhi nel palmo delle mani che avanza verso Ofelia terrorizzata); ma quella dimensione dell’anima, dove avviene lo spostamento fra l’orrore del mondo oggettivo che circonda Ofelia e il nebuloso orrore delle fiabe, Del Toro ha difficoltà a raggiungerla e raccontarla.

(Il Nuovo FVG)

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