Mario Monicelli
Avevano creduto a Mussolini, e si aspettavano la guerra come una breve passeggiata… Tratto da Mario Tobino e Giancarlo Fusco, “Le rose del deserto” di Mario Monicelli narra in chiave di realismo che sfuma in commedia nera la guerra di Libia di un reparto medico di soldati italiani (c’è un riferimento satirico all’oggi nell’anacronistica insistenza sull’essere venuti a portare la democrazia). E’ la disfatta. La guerra nel film irrompe sempre dalla distanza: mai come combattimento, sempre come tiro al bersaglio, con gli aerei inglesi che piombano dal cielo e mitragliano (o in una scena come esplosioni lontane nel buio).
Lo sguardo di Monicelli coglie nei suoi personaggi (giganteggiano le interpretazioni di Michele Placido e Alessandro Haber) l’elemento più immediato e concreto, quasi come uno sketch, che lo svolgimento si incarica di aprire e allargare in completezza umana. O viceversa congela in ferocia satirica nella figura del generale Pederzolli, (un mirabile Tatti Sanguineti); e a coronamento della sua definizione burattinesca l’elemento meccanico e ripetitivo delle partenze a razzo nel sidecar (“Autiere, andiamo!”) lo fissa in una dimensione quasi da cartoon. Avventure non meno surreali che autentiche (il matrimonio del morto) concretizzano quella capacità di elevare il “buffo oggettivo” a verità drammatica che contraddistingue Monicelli rispetto agli altri grandi autori della commedia italiana, compreso Risi.
Alla base del cinema di Monicelli c’è sempre stata una concezione antieroica. L’eroismo che pur vi compare è un eroismo dell’antieroismo - vedi “La grande guerra”. Non cito questo film a caso: con “Le rose del deserto” il novantunenne regista ci ha consegnato un capolavoro (nettamente superiore alla produzione pur spesso rilevante degli ultimi anni) che proprio a “La grande guerra” può essere avvicinato. Si potrebbe anzi arrivare a dire che, se è inferiore a quello, è solo per l’inevitabile minore ampiezza del quadro.
Naturalmente, antieroismo qui vuol dire anche anti-esotismo. Già lo dichiara la scelta di iniziare il film di notte, lontano da qualsiasi retorica fotografica: una breve distesa di sabbia chiara nel buio, con alcune palme, che sembra filmata in studio. Poi la luce del giorno mostra la grandezza del deserto, ma volutamente la fotografia non è brillante; è il contrario assoluto, non dico dei colori smaltati dell’antico “glorious Technicolor”, ma anche delle tonalità ricche e struggenti del colore moderno; le sue tinte fredde semmai richiamano alla memoria certe vecchie cartoline.
La narrazione de “Le rose del deserto” possiede una concentrazione sintetica, un’essenzialità stupefacente. Che si nutre anche della capacità propria dei maestri del cinema di raccogliere un discorso in un’unica inquadratura: vuoi il viso improvvisamente tragico di Haber dormiente sull’automezzo, vuoi la superba conclusione con la piccola croce visibile in lontananza sul crinale oltre le figure in primo piano dei soldati sul camion. Un’inquadratura potente - solo che Monicelli è sorvegliatissimo rispetto a qualunque ipotesi di retorica anche a livello dell’immagine, e allora raffredda immediatamente il tono con l’immediatezza basso-mimetica del dialogo e l’entrata violenta dei titoli di coda, con la voce irridente di Jannacci in “Ho visto un re”. Non c’è elemento del film che meglio dia la misura della sobrietà di Monicelli che tutti gli stacchi e le dissolvenze, bruschi fino alla brutalità.
Girato (a 91 anni!) on location in Tunisia, con gravi problemi logistici e finanziari (testimoniati da alcuni lievi difetti tecnici in un paio di passaggi) soverchiati con una straordinaria determinazione (in questo senso non è sbagliato dire che questo film è l’“Apocalypse Now” di Mario Monicelli), “Le rose del deserto” è uno di quei film - o racconti, poesie, dipinti - che firmano i grandi vecchi, e sembrano concentrare la lezione di tutta una vita con un’asciuttezza e una decisione che sono il miglior regalo dell’età.
(Il Nuovo FVG)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento