Clint Eastwood
C’è in “Flags of Our Fathers” un memorabile momento di ambiguità dell’immagine - quando i tre soldati, nella notte, sembrano issare la famosa bandiera della foto presa sulla collina di Iwo Jima in combattimento, sotto i bengala, e invece stanno riproducendo l’azione su una collina di cartapesta in uno stadio americano, sotto i fuochi artificiali. Inflazione di quella foto nel film, sempre più presente, sempre più ingrandita e replicata in forma tridimensionale (il gelato scolpito al ristorante, le statue, i corpi stessi dei soldati che ne fanno da “testimonial”)! “Flags” descrive il circo mediatico organizzato sui (supposti) protagonisti della foto per vendere buoni del prestito di guerra. Ma contemporaneamente ne illustra con lucida chiarezza le ragioni: senza i soldi dei buoni, la guerra è persa.
Molto articolato sul piano temporale, da quella scena inizialmente ambigua “Flags” fa un lungo giro narrativo per ritornarvi, sia come genesi che svolgimento, ora vista “da dentro”. Il film è costruito su una solenne rete di incroci narrativi: contempla tre linee temporali, e quindi un doppio regime dei flashback (il flashback comporta sempre un senso di solennità: perché mette in gioco il tempo), supportato dal gioco di diverse voci narranti. Col progredire del film i passaggi si fanno sempre più stretti. Le entrate dei flashback di combattimento sono convulse e letali.
Perché “Flags” è in primo luogo un grande film di guerra. Dopo la grande pagina dello sbarco, tutta in colori grigi e bluastri, non è forse sublime la sequenza dei bunker giapponesi che si aprono per sparare sui soldati americani? Questi avanzano cautamente sulla spiaggia di Iwo Jima. Violentissimo cambio del punto di vista: la macchina da presa ci porta dal lato giapponese del gioco campo/controcampo. Ma questo controcampo giapponese non ha volto umano: è una serie di cortine che si sollevano e bocche da fuoco che ne spuntano. Raramente al cinema il concetto di agguato è stato reso in modo così drammatico e inquietante.
Col suo tessuto di flashback, “Flags” è un film di ricordi, di uomini anziani che richiamano un passato di cui non amano parlare, di un figlio che cerca i ricordi del padre. Clint Eastwood è davvero l’ultimo dei grandi classici americani. Non perché pratichi un montaggio “trasparente” (anche se è sobrio), o perché si astenga da accenni metalinguistici, ma per l’atteggiamento. Ci racconta con stupefacente immediatezza umana storie di speranze e delusioni, di uomini (e donne) normali, completi e contraddittori, di problemi morali non isolati astrattamente ma che emergono con naturalezza dalla storia di queste vite (“Million Dollar Baby”): con la stessa naturalezza con cui emergono nella vita il dolore e la sventura. Parlando del classicismo eastwoodiano s’intendono due elementi che si richiamano l’un l’altro: l’immediatezza del narrato e la naturalezza del linguaggio - un linguaggio che nel corso di una lunga carriera si è asciugato fino a diventare come di cristallo, terso e fatale.
Come Samuel Fuller, ma con meno propensione verso il barocco, Eastwood pensa che al centro di tutto stia il racconto, semplice, diretto, senza abbellimenti. Come Howard Hawks (ma anche John Ford, quanto a questo), Eastwood non dipinge eroi, dipinge uomini che fanno il loro mestiere e combattono per difendere i loro amici. Ossia, riporta l’eroismo alla sua vera sorgente umana, teorizzata nelle parole semplici ma alte che chiudono il film sull’immagine dei soldati che fanno felici il bagno in mare. Non è pacifismo: è la grande tradizione realista e umanista del romanzo prima ancora che del cinema americano.
E come John Huston, Eastwood è un poeta dei perdenti. Lo ha mostrato in tutto il suo cinema (e in questa collana di pietre preziose ne sceglierei a mo’ di citazione una splendida e semisconosciuta: “Honkytonk Man”); qui ci racconta il destino di Ira, soldato pellirosse tormentato e ubriacone. Ma in ultima analisi, pensa Eastwood, tutti gli uomini perdono la partita.
(Il Nuovo FVG)
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