sabato 12 gennaio 2008

Ma che colpa abbiamo noi

Carlo Verdone

Problema: il cinema italiano deve morire? Beh, no, se vogliamo rispondere seriamente. Anche a parte i suoi pochi grandi (Bertolucci, Amelio, Argento, Ciprì & Maresco, Martone...), sa ogni tanto tirar fuori - purtroppo in genere con successo di pubblico non esaltante - delle sorprese, delle opere importanti e degne. Un esempio recente: “L’imbalsamatore”, di Matteo Garrone. Però... però in linea di massima quel cinema italiano che riesce a riempire le sale in concorrenza coi successi americani ha come caratteristica principe la vacuità, oscillando fra due poli egualmente desolanti: a) le ignobili scemenze, come “La leggenda di Al, John e Jack” di Aldo-Giovanni-Giacomo & Massimo Venier; b) i film esili fino alla trasparenza, come “Ma che colpa abbiamo noi” di Carlo Verdone.
(Nota in margine: non ho ancora visto “Natale sul Nilo” di Neri Parenti, ma mi sembra ragionevole presumere che risulterà superiore ai due film citati - e se non altro, essendo meno ambizioso, più serio).
“Ma che colpa abbiamo noi” non è ignobile: è inutile. Partito da un’idea molto promettente (un gruppo di nevrotici rimasti abbandonati a se stessi dopo la morte della loro psicoanalista decide di curarsi da solo, autoanalizzandosi in incontri settimanali, e intanto il film segue le loro vite), mostra una specie di zelo nel buttarla via. È inconsistente, diafano, medusoide, fiacco, acquoso come il brodo che Verdone è costretto a ingurgitare in una delle prime scene. In verità, alcuni tratti minori appaiono riusciti: funziona ad esempio lo “humour noir” dell’inizio, con la vecchissima analista dagli occhiali neri immobile in poltrona durante la seduta, ed è morta senza che nessuno se ne accorga; oppure, delizioso il condomino che dalle scale si rivolge esasperato ad Antonio Catania (e la mania “ferroviaria” di quest’ultimo è l’unico tratto indovinato in questa galleria di nevrosi). Insomma esiste una certa capacità inventiva, che però si esprime in dettagli felici perduti in un quadro piatto. Nel periodo della sua decadenza come autore, Verdone funziona soprattutto per vie laterali e sfuggenti. Nel corpo del film, più d’una scenetta o gag resta sconcertantemente sospesa nel vuoto - vedi quella, di imbarazzante inanità, del cellulare che riceve telefonate oscene.
Figure generiche, questo gruppo di nevrotici! Figure umbratili e filiformi. L’unica storia un po’ consistente, e non fa meraviglia, è quella di Verdone stesso, schiacciato da un padre che sembra il Saturno di Goya in versione doppiopetto. Veri nevrotici in fondo, a parte un paio, non sembrano neppure: sono nevrotici o solo nervosi? Ché di essere nervosi avrebbero anche motivo, viste le loro comuni disgrazie umane, che il film fa mostra di prendere come drammi laceranti dell’alienazione. In realtà giocano qui quel moralismo piccolo piccolo, alla Sora Cecia, ch’è caratteristico dell’ultimo Verdone, e le soluzioni deboli e fiacche di una sceneggiatura con poche idee. Così il gay è ricco, raffinato e un po’ tenebroso, la finta bionda rifiuta di non essere più giovane e frequenta i bar per single pagandosi anche qualche gigolo (oh, il peccato mortale!), Margherita Buy - attrice peraltro sempre convincente - vive nell’illusione che il suo amante lascerà la moglie... La grande Kermesse del déja-vu del cinema italiano, condita ogni tanto da qualche classico scoppio di autocoscienza a scopo di messaggio, e culminante in una tediosissima storia d’amore fra i “carucci” non meno che antipatici Anita Caprioli e Stefano Pesce.
“Ma che colpa abbiamo noi” pone un po’ di sguincio un tema che in sé potrebbe anche risultare assai interessante: la terapia come rifiuto della cura, ovvero, l’autoanalisi come espediente per parlarsi addosso rifiutando il contatto con la realtà. Ma anche questo il film lo lascia perso nel generale sciupío di spunti proficui.
Non ci resta che aspettarne speranzosamente un remake francese.

(Il Nuovo FVG)

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