sabato 12 gennaio 2008

C'era un cinese in coma

Carlo Verdone all’Odeon

La barzelletta del cinese in coma - quella che Carlo Verdone per tutto il film cerca di far dire a Beppe Fiorello, e alla fine la racconta lui agli spettatori guardando in macchina - a metà strada capisci già come andrà a finire. Dunque il regista-interprete doveva sceglierne una migliore? Ma no: quella barzelletta rispecchia perfettamente il film (“C’era un cinese in coma”, sceneggiato da Verdone, Giovanni Veronesi e Pasquale Plastino) nella sua assoluta prevedibilità.
Parlando di prevedibilità, non intendo criticare l’impianto generale, ch’è un classico del cinema-sullo-spettacolo: l’anziano Pigmalione (che può essere un’attrice, come in “Eva contro Eva”, un regista, o un piccolo impresario come qui) si alleva una giovane promessa e alla fine scopre di essersi scaldato una serpe in seno. Carlo Verdone è un manager di spettacoli d’infimo ordine (la sequenza iniziale con l’elezione delle miss sotto la pioggia è un tardo-fellinismo dilavato attraverso un piccolo realismo bozzettistico) e il suo fedele autista Beppe Fiorello sogna anche lui il mondo dello spettacolo. Un giorno un intrattenitore si rompe una gamba e Verdone lo sostituisce per disperazione con Fiorello. Questi tira fuori imprevedibilmente una comicità tutta fisica e sessuale (presumibilmente qui il film vuole satireggiare la volgarità nello spettacolo; e a dire il vero, per antipatico che sia il personaggio, il micro-moralismo del film sa tanto di “Dove andremo a finire, signora mia”). Successo strepitoso. Tutto il resto va da sé.
Anche se uno non è Joseph L. Mankiewicz, questa vecchia storia può essere sempre raccontata con pregnanza. In “C’era un cinese in coma”, però, non è scontato solo lo sviluppo, lo è - spietatatamente, pagina per pagina, riga per riga - l’intera sceneggiatura. Man mano che il film va avanti, lo spettatore sa già tutto. Ora Fiorello tirerà fuori la cattiveria con Verdone. Ora lo scaricherà come impresario. Ora gli scoperà la figlia. Ora Verdone finalmente, toccato nell’onore familiare, esplode, lo mena e gli brucia la Porsche. Bruciare auto di lusso (che spreco) è il simbolo numero uno della Rivolta nel cinema italiano dell’indignazione - cfr. “Il portaborse” di Luchetti.
Non si può dire che “C’era un cinese in coma” sia un film detestabile. Non è brutto come “Gallo cedrone”. La modestia della sceneggiatura emerge nella mediocre e debole caratterizzazione dei personaggi, che si muovono - esistono - non come figure vive ma in rapporto alle esigenze della sceneggiatura, e nemmeno nel suo complesso ma scena per scena. Vedi la sequenza passabilmente stupida delle due ladre, la cui gratuità prima che si arrivi al dunque, cioè al furto, non serve che a strappare - o implorare - una risatina da parte del pubblico. Figure come la segretaria-amante o lo stessa figlia rimangono evanescenti. L’unica figura a tutto tondo è, al solito, Verdone, che scrive/dirige/interpreta dignitosamente un’altra figura della sua galleria; perfino del personaggio di Fiorello, nonostante la sua centralità, si ha l’impressione che si muova in base a mere funzioni di sceneggiatura. Gli elementi vagamente omo del rapporto fra i due, appena suggeriti, restano appesi nel nulla: questo film è, come un vestito cucito male, pieno di fili pendenti e dimenticati.
La parte migliore del film si trova nella descrizione, ora acida ora impietosita, della fauna umana che gravita attorno alla scassata agenzia di Verdone. Il vecchio prestigiatore siculo che approfitta dei giochi per palpare le belle signore; la squinzia sessualmente disponibile in cerca di contratto; il fachiro, la cui triste vita è suggerita con solo un paio di tocchi esemplari; le gemelle, la cui abitudine di parlare all’unisono sfocia nella gag migliore (e nascosta) del film... Non sarà che Verdone avrebbe fatto meglio a fare il film su quello che ha inventato come sfondo?

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: