sabato 12 gennaio 2008

L'uomo senza ombra

Paul Verhoeven

All’inizio de “L’uomo senza ombra” - la bella nuova versione della favola cinematografica dell’Uomo Invisibile che ci dà Paul Verhoeven - c’è una scena che dice tutto: quando lo scienziato Sebastian (Kevin Bacon), prima di scoprire la formula che ricerca, segue con lo sguardo la bella ragazza che si spoglia nell’appartamento dirimpetto. Perché, confessiamolo, quella è la prima cosa cui pensiamo quando sogniamo di essere invisibili: di spiare una bellezza nell’intimità. O comunque in generale: di guardare. Più in là nel film un personaggio chiede a Sebastian invisibile “Stai guardandomi?”, e lui (mentendo): “No, perché?”. Con l’invisibilità non si sa dove lo sguardo sia diretto. Ecco il nucleo, il cuore, del sogno di essere invisibili: liberare il nostro sguardo dal peso del nostro corpo.
Dunque è dallo sguardo che parte tutto; ben lo sapeva H.G. Wells, il cui seminale, splendido romanzo “L’uomo invisibile” del 1897 anticipa (come già è stato notato) quell’ossessione del controllo totale che culminerà in “1984” di George Orwell. Poi naturalmente un uomo invisibile può compiere nefandezze ben maggiori che spiare una bella donna nuda. Da Wells in poi - via via nella storia del cinema fin dal classico “L’uomo invisibile” di James Whale (1933) con Claude Rains - qualsiasi Uomo Invisibile che si rispetti diventa paranoico e finisce per paragonarsi a Dio. Il presente film, che si avvale di una buona sceneggiatura compatta di Andrew W. Marlowe, sviluppa apertamente il concetto non solo nello svolgimento ma nel dialogo.
Il bel modo di raccontare, forte, coerente e crudele di Paul Verhoeven - un regista che porta sempre all’estremo quello che narra - ci regala un film assai godibile, rinnovando una bella icona cinematografica nella figura inquietante di Sebastian che si aggira con la maschera di gomma, diretta discendente delle bende di Claude Rains. Gli stupefacenti effetti speciali consentono al film di sviluppare, nelle scene di invisibilità parziale, una concezione visuale assolutamente barocca: quello stesso gusto di guardare il corpo “dall’interno” che dava forma nel Seicento alle macabre cere anatomiche dello Zumbo e nel Settecento a quelle del Lelli, del Manzolini, del Susini...
Come in (quasi) tutti i film sull’Uomo Invisibile, ne “L’uomo senza ombra” il discorso implicito verte tutto sui rapporti - più forti di quanto ci piacerebbe pensare - tra (in)visibilità e rettitudine. Il luogo comune cinematografico, presente in quasi tutta la filmografia, per cui il procedimento dell’invisibilità provoca la follia nel protagonista, rendendolo un criminale, è solo un travestimento narrativo - quasi un’allegoria - della perdita della morale umana a causa d’un simile potere assoluto. Sebastian lo dice nel film in una battuta terribilmente illuminante: “E’ incredibile quello che riesci a fare quando non devi più guardarti allo specchio”. Esattamente come il filtro del dottor Jekyll, l’invisibilità - che poi in fondo è anch’essa un filtro - libera chi la sperimenta dalle remore morali (e ci sarebbe qualcosa da dire sul titolo originale, “Hollow Man”, l’uomo vuoto).
Il film ci ricorda in modo convincente che il peso del corpo è il peso della rettitudine - e viceversa. Perso (illusoriamente) il corpo, persa la rettitudine Beninteso, l’Uomo Invisibile il corpo ce l’ha, solo che non si vede. Ma noialtri umani, che sembriamo così sofisticati, sotto sotto manteniamo il materialismo un po’ grossolano di San Tommaso. Se non vedo non credo. Così tendiamo a pensare l’uomo invisibile in termini di creatura incorporea, di fantasma. E ne “L’uomo senza ombra” proprio come un fantasma appare Sebastian invisibile quand’è drappeggiato nel lenzuolo; immagine così indicativa che è quella scelta per campeggiare sui manifesti del film. Non per nulla al cinema la sconfitta dell’uomo invisibile è sempre quando comincia a diventare visibile: ovvero, quando l’ingombrante fardello del corpo reclama i suoi diritti.

(Il Nuovo FVG)

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