sabato 12 gennaio 2008

Il mio West

Giovanni Veronesi

Credevamo di averla scampata, e invece la peggior ciofeca, o come dicono a Roma “sòla”, del 1998 è piombata adesso sui nostri schermi: l’insopportabile “Il mio West” di Giovanni Veronesi con Leonardo Pieraccioni.
Il western più parlato da “The Great Train Robbery” di Edwin S. Porter, 1903, in poi. I primi dieci minuti, colla voce narrante del bambino che ci presenta ad uno ad uno personaggi e situazioni, non sono cinema, sono radio; ma anche in seguito “Il mio West” - fra il dialogo alluvionale e l’asfissiante voce off - non è tanto un film quanto un radiodramma. Specie considerando, oltre la loquacità, la sudditanza del visibile rispetto al parlato. Agli inizi del cinema la didascalia serviva ad annunciare quello che si stava per vedere, come in un programma di quadri teatrali; similmente ne “Il mio West” il parlato serve ad annunciare quello che vedremo, e ritorna dopo per confermarcelo. C’è perfino una tribù indiana accampata in montagna con un messaggero a cavallo che ripassa a raccontargli quel che abbiamo appena visto succedere, puntuale come il telegiornale (si chiamerà Mentana Seduto).
Per gli sceneggiatori Veronesi e Pieraccioni il cinema non è fatto per mostrare: una cosa esiste solo in quanto è asserita verbalmente; e allora discorsi, babate, orazioni, dissertazioni, talk show, concioni, dibattiti, chiacchiere, sermoni, logorrea. Tanto più che si tratta di un film-messaggio nel peggior stile anni sessanta, che verbosamente enuncia tutti i luoghi comuni di un retorico e melassoso buonismo di massa: pacifismo, nonviolenza, volemose bene, e c’è perfino la mozione vegetariana. Ma la dominanza della parola non impedisce che la struttura del racconto sia traballante, la logica interna sconquassata. Il film costruisce pesantemente la tesi che l’ex pistolero pentito Harvey Keitel (improbabile padre di Pieraccioni) non deve accettare di battersi a duello col rivale malvagio David Bowie che lo perseguita, neppure se Bowie prima violenta e poi uccide la sua donna, Alessia Marcuzzi (e infatti, questo senzapalle, niente). Fin qui il film avrebbe almeno una sua logica da eunuchi. Poi però gli sceneggiatori non sanno come tirar fuori l’”happy end”, si sono intrappolati da soli; alla fine Harvey Keitel non sparerà perché un altro lo fa per lui. Morale, il pacifismo è che il lavoro sporco lo deve fare qualcun altro.
A dispetto dell’impegno di scenografo e costumista, di western ne “Il mio West” c’è poco. Solo alcune deboli, scolastiche inquadrature “di genere” (perfino una sconnessa citazione fordiana quando Keitel esce di casa, inquadrato da dentro in controluce nel rettangolo della porta, ed è “Sentieri selvaggi” mal ripreso). La sola idea cinematografica decente in tutto il film è la caratterizzazione del killer. La sua apparizione, coi due tirapiedi mostruosi e la fotografa perversa al seguito, è superba. Mentre Harvey Keitel tira al risparmio, David Bowie si impegna con divertimento nella parte ed è splendido, deliziosamente malvagio. Spesso al cinema i cattivi sono più attraenti dei buoni, ma qui in particolare la nullità del film fa sì che siamo tutti lì a sperare che Bowie strangoli quel bambino logorroico, violenti la madre e stermini l’intera famiglia.
Per tutto il film Leonardo Pieraccioni, sempre più somigliante col suo viso rotondo a Marco Messeri, non si scolla dalla faccia quell’unica espressione che ricorda il PacMan. Ma davvero quest’uomo di presunzione infinita non ha pensato che accostando a David Bowie e Harvey Keitel il suo faccino pulito e inespressivo avrebbe fatto una figura del piffero? Infatti con l’entrata in scena dei due attori Pieraccioni come presenza scenica sparisce dal film di cui è “protagonista”: scomparso, annullato, disfatto, kaputt.
Quanto a Giovanni Veronesi, l’unica cosa che mostra questo film da lui scritto e diretto è che non è uno sceneggiatore e non è un regista. E’ un “object inconnu”, una x, un Ufo. Bisogna avvertire subito Mulder e Scully.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: