sabato 12 gennaio 2008

Festen

Thomas Vinterberg

Paradosso esagerato ma utile: “Festen”, lo splendido film di Thomas Vinterberg premiato a Cannes, nasce secoli fa, quando la riforma luterana ridusse i sacramenti, trasferendo la confessione al rapporto interiore fra uomo e Dio. Senza il tramite cerimoniale della confessione cattolica col suo meccanismo assolutorio, la coscienza rimane sola con la colpa, che non sa se avrà perdono. Alla fine di “Festen” il padre lascia la sala curvo sotto il peso del suo peccato, laddove in un paese cattolico il suo discorso di confessione sarebbe servito a una sorta di assoluzione.
Il passato opprime tutto e tutti sotto il suo peso in “Festen” (che, ironicamente, è una festa di compleanno: quando si celebra il passato per accettarlo e dissolverlo). Fin dall’inizio l’ombra di Linda, la sorella suicida, è il convitato invisibile. Il figlio maggiore Christian è il portatore della voce della donna morta (nota che nel film erano fratelli gemelli) che vuole vendetta: vuole la rivelazione della verità, il peccato innominabile: il padre li stuprava entrambi da bambini. Eliminato provvisoriamente Christian, la lettera della suicida - già trovata e nascosta dall’altra sorella Helene - rispunta in forma romanzesca e “vuole esser letta”. Questa gigantesca villa della campagna danese dove appare il fantasma di Linda è “haunted”, è una casa abitata dagli spiriti. In questo senso, questo film modernissimo per linguaggio e concezione è un film gotico. Sembra una festa di morti. Quel serpentone per le stanze inneggiante ai sessant’anni del padre, che Vinterberg riprende in una tremenda inquadratura da lontano e dal basso, è una processione infernale, una danza macabra (si possono citare scene analoghe, né c’è da stupirsene, in Lars Von Trier, compagno di Vinterberg nel gruppo Dogma 95: per esempio in “The Kingdom”). Una festa di morti. Non c’è sensualità in questa cena di lusso (né nel furioso rapporto sessuale del fratello minore Michael con la moglie); l’unico giudizio goloso sul cibo - “Ah, kvesto è buono” - viene dal personaggio più sciocco e comico di tutti, il tedesco cerimonioso. Perfino l’atto di pedofilia del padre, più che da una sessualità distorta, sorge da potere assoluto e delusione egomaniacale (“Eravate buoni solo a questo!”).
Il decoro altoborghese si incrina a poco a poco sotto i colpi della rivelazione, e la frattura attraversa obliquamente la casa, assumendo i connotati di una bizzarra guerra di classe, coi camerieri e i cuochi che si alleano a Christian. Ricorda vagamente Renoir, questa separazione della microsocietà del film per strati sociali ove uno riflette le vicende dell’altro. Peraltro “Festen” non è un film naturalista. Il realismo che scava i volti attiene a un cinema livido, eccessivo, deformato. L’inizio, col pazzoide Michael che vede per strada Christian e per dargli un passaggio butta giù dalla macchina la moglie e i bambini, ci trasporta subito nel grottesco; e questa cena più volte drammaticamente interrotta che riprende sempre appartiene più a Bunuel che a un realismo ibseniano. La devastante libertà espressiva di Thomas Vinterberg fa implodere su se stessa la concentrazione “teatrale” di spazio e tempo del film. Il folle spazio creato dal grandangolo, che deforma i piani, si sposa con i movimenti “urlanti” della macchina da presa a mano, e con l’incredibile fotografia che si direbbe ripresa con una m.d.p. cinematografica, poi trasferita su video, indi ritrasferita su pellicola.
Nell’universo di “Festen” tutti questi personaggi si muovono in una bolla di solitudine. Neppure il picchiarsi, l’aggressione fisica, produce una comunicazione. Certo la tempesta produce infine provvisorie alleanze, fragili unioni. Ma, nonostante lo svolgimento rigidamente vettoriale, resta alla fine del film un’impressione di movimento gelato e meccanico, circolare e senza risoluzione, come la bambolina del carillon dei titoli di coda.

(Il Nuovo FVG)

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