lunedì 7 gennaio 2008

Lost in Translation

Sofia Coppola

Il qui e il là. Viaggiare significa muoversi in un altrove, rispetto al “qui” di casa, che non è solo spaziale ma dell’anima. Ogni viaggio è anche un viaggio interiore: il macrocosmo coincide con il microcosmo (troppo bene lo mostra il capolavoro del cinema di viaggio “Una storia vera” di David Lynch). In entrambi i sensi, il viaggio è anche etimologicamente uno spaesamento.
Spaesato è Bill Murray in “Lost in Translation - L’amore tradotto” di Sofia Coppola, nel ruolo di Bob Harris, divo americano in Giappone per girare la pubblicità ben pagata di una marca di whisky. Spaesato perché sempre gli americani quando viaggiano vivono quella situazione di vago stupore infantile espressa dal titolo d’un libro di viaggi di Mark Twain: “The Innocents Abroad”, gli innocenti all’estero. Spaesato personalmente per la scoperta perplessa di una Tokyo che (gli) rappresenta l’epitome della bizzarria; e qui Sofia Coppola intesse un’umorosa osservazione “in soggettiva” del Giappone d’oggi. Spaesato poi perché quest’attore in crisi sottaciuta, sposato con una rompipalle (un altroquando coniugale bizzarramente inumano nel suo esprimersi attraverso fax accusatori, telefonate acide e campioni di moquette per posta), è spaesato a se stesso. Anche Bob è “lost in translation”: che ovviamente significa “perduto in traduzione”, ma anche “sperso nel trasferimento”. Tutto ciò è scritto dentro l’espressione finto impassibile, educatamente stanca, di Bill Murray. “Lost in Translation” ha una forte componente di cinema muto - nel senso che è profondamente giocato su una muta mimica dell’interiorità.
In questo déplacement vengono a galla le insoddisfazioni e i rimpianti. E quando Bob incontra un’altra solitudine, l’americana Charlotte (Scarlett Johansson), giovane, intelligente, moglie trascurata di un fotografo perfettamente cretino, nasce una storia d’amore implicita e fantasmatica (ma con una sottesa fisicità che Sofia Coppola sa rendere assai bene, in un film che si apre audacemente sull’immagine del bel sedere di Scarlett Johansson nelle sue mutandine trasparenti). Alla fine, un bacio - esaltato dall’ammirevole montaggio di Sarah Flack - ma poi la separazione. Come nel bellissimo esordio di Sofia Coppola “Il giardino delle vergini suicide”, l’alterità è irraggiungibile: là era la distanza del passato nella dimensione della memoria, qui il peso del passato come condizione “già data”, e dunque l’impossibilità (o l’incapacità) di concretizzare il sogno. All’interno dell’interpretazione più grande di quel magnifico attore che è Bill Murray, è indimenticabile il suo sguardo in questa scena finale, degno di Chaplin, anche se l’impostazione generale è keatoniana piuttosto che chapliniana.
Il viaggio, dunque - ma il viaggio è anche la stanchezza. Sotto il peso del jet-lag, il tema della mancanza di sonno attraversa interamente il film, dall’inizio (l’ironico “Andate a dormire, sarete stanchi” di Bob al comitato di ricevimento giapponese) ai dialoghi sull’insonnia fra Bob e Charlotte, che poi passano dal non dormire al vivere di notte: girano per Tokyo, discutono della vita stesi su un casto letto, guardano “La dolce vita” in tv con sottotitoli giapponesi (nota che anche quella di Anita Ekberg e Mastroianni è una scena di peregrinazione notturna).
Questo non è gratuito. Nell’insonnia si crea uno stato di ottundimento e al suo interno di contemplazione, si potrebbe dire di risonanza, che provoca una deformata amplificazione dell’esperienza. Momenti di sospensione e stupefazione. Per Bob il soggiorno in Giappone è una sorta di seduta ipnotica, che favorisce l’emergere del non detto. E quest’aspetto febbrile, come una trance, dà forma al film; e non nasconde d’essere la concretizzazione diegetica (cioè, giustificata dal racconto) di uno “stato della visione” distaccato e “dreamlike”, che è quello che interessa a Sofia Coppola (cfr. “Il giardino delle vergini suicide”), attraverso il quale questa regista di notevole talento guarda il mondo.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: