lunedì 7 gennaio 2008

Le cronache di Narnia - Il leone, la strega e l'armadio

Andrew Adamson

Sapendo che l’ha diretto Andrew Adamson, potrebbero chiedersi gli spettatori de “Le cronache di Narnia - Il leone, la strega e l’armadio” (d’ora in poi solo “Narnia”, altrimenti non resterà spazio per la recensione): che rapporto può esserci fra l’approccio sarcastico di “Shrek”/”Shrek 2” e quello assolutamente serio del film presente?
Li accomuna un fattore centrale: un gusto della fedeltà iconografica che si vorrebbe chiamare quasi filologico. Sì, anche in “Shrek”. Perché qualsiasi parodia che voglia esser tale in senso proprio (che non tratti cioè l’oggetto parodiato come mero pretesto) è un atto filologico: individua, evidenzia e replica i tratti caratteristici del proprio oggetto. Non per nulla “Shrek” si apriva su un’illustrazione d’un libro di fiabe di esplicita ascendenza disneyana (che l’orco immediatamente strappava per usarla come carta igienica). E che dire di “Narnia”?
“Narnia” va in diretta opposizione a una regola centrale dello spettacolo contemporaneo per cui qualsiasi rifacimento è concepito solo in termini di ammodernamento: contemporaneizzare tutto! Vedi il recente e piacevole “The Legend of Zorro” di Martin Campbell. E (se è concessa una breve digressione) anche Peter Jackson nel bellissimo “King Kong” di Peter Jackson partiva da una dichiarata fedeltà al testo - il film del 1933 - per modularlo in senso metacinematografico, in una lunghissima opera-monstre che praticamente consta di tre film congiunti: una fantasia romantica sul viaggio seguita da un’estremistica action fantasy che esplora i limiti attuali della computer graphics seguita da un mélo cinefilo che declina l’omaggio al mito.
Tornando a “Narnia”, l’interesse del film - al di là della sua piacevolezza spettacolare - sta proprio nel fatto di sfuggire a questa urgenza dell’attualizzazione. Sceneggiato da Ann Peacock con Andrew Adamson, “Narnia” utilizza con larghezza i mezzi del cinema contemporaneo, come la computer graphics, ma per ricalcare il romanzo di C.S. Lewis del 1949 con vero scrupolo. Anche gli ampliamenti narrativi (come l’episodio in cui i personaggi fuggono scambiando la slitta di Babbo Natale per quella della Strega Bianca, o l’enfatizzazione della battaglia finale) servono a una mera estensione spettacolare. Nessuna scena è tanto indicativa di questa fedeltà al testo quanto quella dell’incoronazione dei quatto ragazzi-re, che sul piano iconografico potrebbe appartenere a un libro di fiabe dell’ottocento o a una fiaba Disney classica come “La bella addormentata”.
S’intende che la fedeltà all’ispirazione di C.S. Lewis non si esaurisce in un ottimo lavoro scenografico ma comprende il piano narrativo e morale, mantenendone puntigliosamente l’impianto allegorico. Vedi il leone Aslan, che in Lewis è, non senza audacia, figura di Cristo: il suo sacrificio, nel romanzo, traduce il testo evangelico con stupefacente sicurezza. Culminando nella rottura della Tavola di Pietra - chiara trasposizione della rottura della pietra del sepolcro - seguita dall’apparizione alle “pie donne”, questa analogia è presente, e molto ben resa, nel film (ma un difetto non indifferente della versione italiana è il doppiaggio bleso ed esitante di Omar Sharif).
A un livello inferiore, lo stesso discorso vale per il modo in cui il film recupera il gustoso humour sotteso. C.S. Lewis è figlio di Lewis Carroll (“no pun intended”): come “Alice nel Paese delle Meraviglie” trasferisce il mondo britannico sul piano del surreale, così “Narnia” dona al suo universo fiabesco tratti umoristicamente “british", coi suoi fauni che prendono il tè e i castori che pranzano con fish’n’chips.
L’adesione al testo di Lewis, così decisamente ricalcato, conferisce a “Narnia” una sorta di stilizzazione: un piacevolissimo gusto rétro, temperato sul piano spettacolare (la battaglia è bella quanto quelle del “Signore degli Anelli” - al cui pubblico, del resto, il film fa appello) da una messa in scena elegante e vivace.

(Il Nuovo FVG)

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