martedì 8 gennaio 2008

Lontano dal paradiso

Todd Haynes

Una quieta tragedia familiare fra il 1957 e il ’58. Cathy, casalinga agiata del Connecticut, scopre l’omosessualità del marito Frank, che infine divorzierà da lei per vivere con un uomo. Durante la crisi del matrimonio Cathy prova un’attrazione per un giovane amico negro - ma questo rapporto in embrione desta il doppio razzismo contrapposto dei bianchi e dei neri; finirà in un muto scambio di sguardi alla stazione quando l’uomo lascia la città.
Il magnifico “Lontano dal paradiso” (“Far from Heaven”) di Todd Haynes ci racconta la rottura di un universo femminile anni ’50 chiuso e autoreferenziale, dove “casalinghe felici” dalla segreta inquietudine organizzano party, gestiscono figli orridi, si riempiono dignitosamente di Daiquiri e spettegolano sulla frequenza sessuale dei mariti. Di quell’universo, di lì a poco, Betty Friedan (anche se in un’ottica sballata) avrebbe descritto l’insostenibilità nel testo base del femminismo americano, “La mistica della femminilità”. Non senza ironia Haynes introduce un frammento di un film d’epoca, “Three Faces of Eve”, che parla di schizofrenia femminile.
Una quieta tragedia, che fin dalla grafica dei titoli Haynes racconta riprendendo accuratamente linguaggio e codici dei mélo degli anni ’50, e segnatamente del grandissimo Douglas Sirk. Basta vedere quelle “sirkiane” foglie spazzate dal vento; e il sontuoso rosso autunnale delle foglie gioca un ruolo dominante nel sistema dei colori del film, colori “eccessivi”, saturi, fiammeggianti, sirkiani al pari dei ricorrenti solenni voli della macchina da presa in dolly e in gru: dall’avvicinamento dall’alto in apertura del film al movimento inverso dell’allontanamento finale (classica sorta di “consummatum est” del racconto e del suo dolore).
Il codice del mélo potenzia al massimo la concentrazione simbolica dello svolgimento in un oggetto-simbolo. Così di oggetti-simbolo “Lontano dal paradiso” è costellato, dal più importante, il ramo tagliato di foglie rosse nel vaso, alla fiaschetta dell’alcoolizzato Frank, al foulard che Cathy indossa nella scena finale. Allo stesso modo il mélo ricerca la corrispondenza “romantica” fra sfondo e azione, o fra tempo atmosferico e sentimenti, come qui (la scena della richiesta del divorzio con buio e neve alla finestra).
Ora, “Lontano dal paradiso” porta nel sistema del mélo anni ’50 il “non detto” di tematiche che quell’epoca non poteva mostrare: è evidente che nei ’50 portare in primo piano l’omosessualità maschile, o una relazione interrazziale, sarebbe stato difficilmente compatibile coi codici del mostrabile. D’altro canto però, l’uso nel film dell’ellissi con dissolvenza in nero (vedi le due scene con Frank, nel bar per omosessuali e più oltre nell’incontro in camera col ragazzo) è un preciso tratto d’epoca, che rinforza la narrazione omettendo la visione, in netta opposizione alla “bulimia del vedere” propria del cinema contemporaneo. Dunque il film si situa fuori dai codici sul piano del narrato (la storia) ma dentro quei codici sul piano del linguaggio (il discorso).
E’ in questa difficile contrapposizione che risiedono la sua ricchezza e il suo fascino. Proprio questa ci autorizza a dire che non si tratta di un semplice esercizio di stile, un rifacimento manieristico nel gusto del citazionismo contemporaneo. “Lontano dal paradiso” non è citazionistico, è linguistico; non è un rifacimento, è una riscrittura.
E come tale ha il vantaggio di mostrarci “sperimentalmente” la superiorità espressiva del cinema di allora su quello contemporaneo. Vedi i citati movimenti in gru: anche nel cinema contemporaneo c’è un forte uso di dolly e gru (movimento simile ma più ampio); ma, pressoché svincolati dalla dimensione “enunciativa” del commento e della solennizzazione, hanno un significato di mera eleganza visuale (o meglio, se v’è una traccia dell’antico valore enunciativo, è appunto residuo).
Su questa superiorità converrà riflettere. Anche per questo “Lontano dal paradiso” è uno dei film americani più importanti degli ultimi anni.

(Il Nuovo FVG)

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