martedì 8 gennaio 2008

8 Mile

Curtis Hanson

“Fottetevi tutti se dubitate di me!” grida rappando Eminem al pubblico nella battaglia finale del bellissimo “8 Mile” di Curtis Hanson (le “battaglie” sono sfide fra rapper che improvvisano per 45 secondi sul palco sputtanando l’avversario senza esclusione di colpi). Come ogni grande battuta cinematografica, anche questa sintetizza un film, un “mood” e una filosofia: in “8 Mile”, quella voglia di vincere, quell’autoaffermazione rabbiosa, e sovente - come qui - disperata, che è il vero cuore del cinema americano. Un cinema di frontiera e di uomini. “8 Mile” richiama in qualcosa quel film americano seminale che è “Rocky” di Stallone e Avildsen. E si apre con Eminem che vomita di paura prima di una battaglia, e la perde restando muto di fronte a una platea di neri che urla “Strozzati”. Dunque, l’ascesa come riconoscimento collettivo di una forza interiore che però deve prima esprimersi come fiducia in sé: nel cinema americano la vittoria è in primo luogo una vittoria su se stessi.
La base narrativa di questo film divagante e libero è classicamente tradizionale: parolacce a parte, la solida sceneggiatura di Scott Silver potrebbe uscire dall’epoca d’oro del cinema americano. Eminem dà corpo a un giovane rapper anonimo fin dal nome, Jimmy Smith jr., detto Rabbit; oltre che grande rap (ma lo è tutto l’hip-hop che si sente nel film, anche quello degli avversari), bella, sorprendente interpretazione. Jimmy è povero, “white trash”; è bianco (quindi i neri lo vedono come un usurpatore dell’hip-hop); vive con la madre sessualmente libera, il che lo imbarazza - una figura splendidamente definita, questa, e una notevole interpretazione di Kim Basinger (a 50 anni, d’una sconvolgente bellezza matura). Nonostante tutto, Jimmy trionferà come rapper: è il “dalle stalle alle stelle” - anche quando come qui il finale lascia la prevedibile ascesa nell’implicito - del Sogno Americano: che storicamente ha dato forma alla cinematografia più grande e (non sembri strano il termine) più morale del mondo.
Curtis Hanson è un regista assai solido, ottimo creatore di atmosfere, spaziando dall’iperrealismo alla Ellroy di “L.A. Confidential” al semidocumentarismo di “8 Mile”. Ed è provvisto di una interessante vena romantica; un’immagine che la riassume, l’uomo che fermo in auto guarda la finestra della donna amata, compariva in “L.A. Confidential” e ritorna qui. In “8 Mile” Hanson, come accennavo, innesta sul racconto un autentico sguardo documentaristico. Il film concretizza la sua descrizione intensa della Detroit povera con un robusto realismo ambientale (le strade, la vita giovanile, la fabbrica dove lavora Jimmy). Anche la scena del rapporto sessuale in fabbrica con l’amica, in contrasto col romanticismo un po’ laccato che avvolge il sesso nei film americani, qui ha un realismo “matter of fact” che lo rende, nella sua castità visuale, vero come un porno.
Basta guardare la magnifica ripresa in “camera-car” (cioè una carrellata laterale con la macchina da presa su un veicolo) dal bus sulla triste periferia. Questa ripresa ricorda il cinema di Jim Jarmusch (penso alla lunga “camera-car” di “Daunbailò”), altro regista capace di restituirci un’immagine di stupefacente verità della povertà americana. Come pure appare jarmuschiano in “8 Mile” la centralità del “cazzeggio”, dal quale cui emerge un ritratto psicologico collettivo.
In conclusione, merita rendere omaggio alla versione italiana, con dialoghi e direzione del doppiaggio di Carlo Cosolo, comprendente una buona sottotitolatura dei brani rap. E’ fondamentale, giacché il rap attiene alla poesia non meno che alla musica. Il gioco musicale del ritmo si fonde col gioco poetico dei significanti (le rime) e dei significati (le evocazioni, la retorica), donde una urgenza di comprensione del testo che risulta superiore alla canzone, e anche all’opera lirica (con l’ovvia eccezione di Wagner) - riportandoci alle stesse origini meliche della poesia.

(Il Nuovo FVG)

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