martedì 8 gennaio 2008

Il destino di un cavaliere

Brian Helgeland

Dirlo sembra un’offesa per il grande umorista americano, ma all’origine del brutto “Il destino di un cavaliere” c’è, lontanamente, Mark Twain. Infatti il film di Brian Helgeland non fa che appropriarsi - ultimo arrivo nella storia della narrativa popolare, del fumetto e del cinema - della sua proficua intuizione (“Un americano alla corte di re Artù”) del medioevo descritto “sub specie americana”, ossia visto con vergini occhi yankee che riconducono tutto alle categorie da loro conosciute.
Così uno dei due assi su cui si basa il film (del secondo, quello musicale, parleremo dopo) è la ridefinizione dei tornei cavallereschi come una specie di World Cup. Assieme al protagonista Heath Ledger, un falso cavaliere che fa il giro dei tornei sotto un nome altisonante, lo spettatore conosce gli applausi dei tifosi... il rischio di essere “squalificati” (specie se non si è di nobile origine)... l’araldo (Geoffrey Chaucer!) che sembra un presentatore tv... la “stagione” dei tornei percorsa come una stagione sportiva... fino alla didascalia “Campionato del mondo” che accompagna l’ingresso dei nostri eroi a Londra. In tal modo naturalmente il film ha modo di esprimere la morale democratica americana del diritto di chiunque all’opportunità di elevarsi: morale di cui il nostro eroe, sia pure attraverso l’inganno di patenti di nobiltà falsificate, si fa portatore e campione - in anticipo di qualche secolo e sulla riva sbagliata dell’Atlantico.
Quest’impostazione allegramente anacronistica non si limita alla descrizione dei tornei in termini di campionato; merita notare ch’è più o meno la stessa dei vecchi film hollywoodiani sui cavalieri, ma stavolta, ovviamente, conscia e voluta. Va menzionato un particolare assai spiritoso: a un certo punto la bella, Shannyn Sossamon, assiste al torneo sfoggiando un “cappello medievale” che come stile è un purissimo cappellino primi anni ’60. Coco Chanel ne sarebbe rimasta deliziata.
Nota peraltro che, siccome gli americani in nome del progressismo pedagogico si sono metodicamente distrutti il sistema educativo, è dubbio che gli adolescenti cui è rivolto il film sappiano riconoscere questi anacronismi voluti - non più di quanto sappiano riconoscere come citazione biblica la frase che fa da Leitmotiv verbale del supercattivo.
Il secondo filone di “anacronismo creativo” nel film è quello musicale, con canzoni contemporanee inserite in modo sovranamente antistorico (tutti hanno notato la somiglianza col discutibile “Moulin Rouge!” di Baz Luhrmann). Questo è molto divertente nella scena del primo torneo, con tutto il pubblico che canta battendo il tempo: un medioevo rock; poi però, salvo un paio di casi, le canzoni contemporanee non sono più - come si dice - diegetiche, cioè interne al racconto, ma si limitano ad accompagnarlo come una “score” musicale qualunque, inconsistente.
“Il destino di un cavaliere” promette molto nei primi cinque minuti, ma poi non mantiene. In verità spreca impietosamente tutte le possibili buone idee. A partire dai tornei: perché probabilmente l’unico modo in cui avrebbe potuto funzionare sarebbe stato di farne una specie di “Rollerball” medievale, focalizzando proprio sull’aspetto violento, spettacolare, relativamente inedito dei cavalli scagliati a gran carriera, delle lance che vanno in pezzi all’urto, dei cavalieri in armatura che accusano il colpo (tutto quello che effettivamente attraeva i nostri lontani progenitori). Qui invece i tornei compaiono come snodi narrativi, con sufficiente enfasi (però un hongkonghese avrebbe fatto di meglio) ma non come cuore stesso del film.
E’ un film definitivamente incerto fra la commedia avventurosa e la love story sdolcinata, tedioso e verboso, pieno di personaggi irrisolti, con una sceneggiatura macchinosa, spruzzata di un umorismo molto “mild”. Un gioco che gira a vuoto, tant’è annacquato; e che si può tranquillamente dimenticare.

(Il Nuovo FVG)

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