sabato 12 gennaio 2008

Linda Linda Linda

Yamashita Nobuhiro

Non è l’originalità dell’argomento a fare il grande cinema, bensì l’altezza della sua realizzazione. In Linda Linda Linda, del trentenne Yamashita Nobuhiro (visto al Far East Film Festival) , il tema non potrebbe essere più tradizionale: tre ragazze di un liceo giapponese si stanno preparando per il concerto rock di fine anno nella palestra della scuola di lì a pochi giorni, e l’improvvisa defezione della vocalist, nonché chitarra solista, le lascia nei pasticci. Così decidono di sostituire la canzone che preparavano con Linda Linda Linda, un vecchio successo dei Blue Hearts, e arruolano come cantante una studentessa coreana in visita (la star coreana Bae Doo-na, qui eccezionalmente credibile nelle vesti di adolescente). Oltre a giocare in modo delizioso sulle difficoltà linguistiche del personaggio, il film di Yamashita riporta anche, con humour sociologico, il carattere outspoken dei coreani rispetto ai giapponesi, più formali (anche quando si tratta di adolescenti rockettare!). Ma tutta la definizione dei vari personaggi scorre con una carica di autenticità e quieta dolcezza, in una narrazione raffinata del loro presente - ma anche del passato, tramite accenni che lo fanno intravedere “di scorcio”.
Se il montaggio è molto fluido, i bruschi stacchi del macromontaggio fra le sequenze richiamano nella loro immediatezza la quotidianità, il “non costruirsi”, dell’esistenza reale. La costruzione dell’inquadratura introduce un elemento di rigore compositivo che è quasi un raffreddamento dello sguardo, tendendo, con molta eleganza, a una composizione frontale e bilanciata. Quello di Linda Linda Linda è uno sguardo di scoperta ma non uno sguardo ingenuo; anzi, il regista marca la presenza dell’istanza narrante cinematografica (già lo dichiara la sequenza d’inizio, fortemente enunciativa, un gioco di scatole cinesi rispetto allo statuto dell’immagine: uno studente parla guardando in macchina, poi c’è un “Cut!” ed entra in campo inelegantemente la testa del regista di un film-nel-film documentario - quindi è un’irruzione interna alla diegesi, ma nondimeno produce un bizzarro effetto metacinematografico di violazione e rottura dell’inquadratura). Tale consapevolezza si può ritrovare anche nell’adesione a un topos narrativo classico quale il ritardo delle ragazze al concerto, con la loro corsa disperata sotto la pioggia, mentre gli amici intrattengono affannosamente il pubblico, e la loro apparizione in extremis, scalze e bagnate.
A questo film si adattano singolarmente i versi iniziali della canzone che gli dà il titolo: “Come un ratto / voglio essere bello / perché esiste una bellezza / che non si può fotografare”. Proprio questo tipo di bellezza non immediatamente visibile, profonda dentro le cose, riluce nel film di Yamashita. Il cui merito centrale non sta tanto nel suo modo effettivamente realistico e delicato di restituire il mondo adolescenziale, quanto nella verità silenziosa e segreta che sa cogliere: momenti di sospensione quasi stupita, gli interstizi della vita, le risonanze del cuore.
Esistono nel cinema momenti epifanici, che sembrano riassumere in un’inquadratura tutta l’esistenza: quando un momento isolato sullo schermo sta per tutti i momenti simili, e per tutte le esperienze, della vita. Come - in Linda Linda Linda - l’immagine di una bambina che gioca a freccette, oppure una semplice camminata in un campo, seguita in piano sequenza: che misteriosamente comprende e unifica le sensazioni malinconiche e vibranti che tutti abbiamo vissuto. In una passeggiata si concentrano tutte le passeggiate del mondo.
Questa risonanza dell’immagine si ripresenta più oltre (ma andrebbe studiato in esteso tutto il sistema di rime e rimandi del film) nel girovagare notturno di Bae Doo-na nella fiera chiusa e deserta, mentre ripete tra sé gli slogan dei venditori del giorno, seguita dalla mdp in una impressiva inquadratura dall’alto. La mdp l’accompagna fino un muro fortemente illuminato, dove lei si ferma al centro (così qui è il movimento dell’attrice a realizzare quell’inquadratura bilanciata, col punto di gravità al centro, che ritorna nel film) - e su questo sfondo vuoto, nel silenzio della notte, lei gioca con se stessa a presentare a un pubblico inesistente la band come se fosse al culmine di una tournée (conclude, buffamente imprevedibile, uno sbadiglio gigantesco).
Una simile apertura all’immediatezza del visibile quasi evoca il concetto rosselliniano di disponibilità (in un film assolutamente non-rosselliniano). Ha ragione Mark Schilling - nella bellissima recensione pubblicata sul catalogo di Far East Film 2006 - a citare Jim Jarmusch e Aki Kaurismäki; e accanto a questi cineasti della risonanza e della sospensione bisognerebbe, per lo stesso motivo, citare Lars Von Trier. E fra i giapponesi, certamente Kitano, ma anche Nakahara Shun.
Ed ecco che si arriva all’esibizione; c’è un lungo folgorante momento di pausa emotiva di Bae Doo-na, muta, spalle al pubblico: poi lei si volta, parte la canzone - e qui il regista inserisce un’esplosione sonora con un improvviso aumento del volume sull’entrata del refrain “Linda Linda / Linda Linda Linda”. Grandi applausi degli studenti (che proprio la pioggia ha portato a riempire la palestra). Poi alla prima canzone segue un’altra, che parla del sopravvivere in questo mondo di merda (asshole); Yamashita la fa risuonare in suono over su belle “riprese vuote” della pioggia al di fuori che cade sui malinconici spazi aperti della scuola e sulla piscina. Queste ragazze non attendono realmente un produttore discografico che arrivi sul cavallo bianco per trasformarle in rockstar. Hanno cantato, hanno conquistato il pubblico, “ci sono riuscite”. Tutto qui.
E tuttavia, prima nel film, nella fredda luce di un’alba, abbiamo sentito risuonare le parole “Non finiremo qui”, come una promessa, una volontà e una constatazione. C’è nel film una tristezza, nonostante il trionfo - perché questo è un film sulla giovinezza, con il suo senso di mutamento, di provvisorietà, e quindi di perdita. Però c’è anche un elemento di determinazione quasi eroico. Per questo “Linda Linda Linda” - il refrain urlato della canzone - sembra un inno di conquista.

(Nickelodeon)

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