sabato 12 gennaio 2008

The New World

Terrence Malick

Non si può intendere il cinema di Terrence Malick se non si conosce Shakespeare. Nel Bardo inglese il discorso dei personaggi, comprendente le sottili determinazioni psicologiche, non è mimetico ma passa attraverso una lingua poetico-tragica, di infinita pregnanza, di potente ricchezza metaforica e visionaria, che unifica il testo in un inequivocabile “tono” alto. Allo stesso modo Terrence Malick, poeta e trageda, è nei suoi film il custode del linguaggio; ogni enunciazione dei personaggi passa attraverso la sua penna; per questo non rientra nei confini del realismo drammatico contemporaneo del cinema (debitore più di quanto si pensi al realismo del teatro ottocentesco, alla “pièce bien faite”). Se ciò per esempio ne “La sottile linea rossa” si esplicava principalmente nel monologo interiore dei personaggi, nel sublime “The New World - Il nuovo mondo” si allarga - tramite la preponderanza della “voce over” soggettiva ma anche grazie all’ambientazione seicentesca - a tutto il film. Malick non rinuncia alla verosimiglianza e alla specificità psicologica del personaggio, ma la “traduce” in alta poesia verbale: operazione raffinatissima e ardita, sempre sul crinale, che attira nella propria dimensione l’intera opera. Si veda, per fare un esempio, il ritorno del capitano Smith al fortino affamato di Jamestown, quando gli si rivolgono i tre fanciulli disperati: l’“overlapping dialogue” - che di solito s’impiega per ottenere un maggiore realismo - qui al contrario sortisce il risultato di trasformare il trio in coro tragico, di natura teatrale e teatrale solennità.
La storia di Pocahontas, del capitano John Smith e di John Rolfe, marito di lei dopo l’abbandono, si trascrive così in un linguaggio alto - con echi shakespeariani ma non solo; in un passaggio, anche Saffo - che ben rappresenta il linguaggio dell’inconscio: individuale e collettivo. Perché nella storia di Pocahontas Malick, e non è il primo a farlo, realizza una vera psicoanalisi dell’America. Il concetto di “un mondo nuovo” dove “costruiremo una confederazione” (sono sicuro che in originale il termine è “commonwealth”, coi suoi addentellati evangelici e puritani) sta alla base del sogno protestante che diede la forma primigenia agli Usa, e che Malick rilegge nelle forme dolorose della consapevolezza del fallimento e dell’impossibilità. I grandi miti originari americani della foresta e del fiume sono presenti in questo film con una densità di significato e insieme una leggerezza di espressione che poche volte il cinema americano ha saputo toccare. E’ quella caratteristica di “alba del mondo” che si profila nel paesaggio vergine americano a suggerire nel commento musicale l’uso insistito del Prologo dell’“Oro del Reno” di Wagner, elegia di un mondo ancora incontaminato ma che sta per perdere la sua purezza.
In tutto il cinema di Malick la sua percezione del dolore e dell’impossibile si lega alla prodigiosa fotografia “panica” di una natura vivamente tangibile, eppure intimamente irraggiungibile - per i bianchi, non per gli indiani, il grande Altro dell’immaginario americano. La risonanza dell’immagine conferma l’intensità poetica del narrato: l’acqua che corre, il vento nell’erba - e gli animali (forse solo Murnau ha fatto qualcosa di simile). Come sempre in Malick tutte le immagini hanno una freschezza come se fossero state fotografate per la prima volta al mondo.
La narrazione brilla di ellissi folgoranti, di spostamenti dall’oggettivo al soggettivo, di improvvisi e stupefacenti passaggi al racconto indiretto, rinforzando la dimensione poetico-tragica del racconto. Racconto che però non si esaurisce nella dimensione universale. Attraverso un superbo spostamento di focalizzazione narrativa il film accorda con naturalezza la tragedia epica del nuovo mondo (il destino collettivo) e il dramma intimo dell’amore (il destino individuale). “Chi sei tu che io amo?” - ecco il secondo grande tema del film, sviluppato con eguale altezza e intensità.

(Il Nuovo FVG)

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