sabato 12 gennaio 2008

21 grammi

Alejandro González Iñárritu

Ci sono nel cinema due grandi campi (ma non così separati fra loro come si fa qui per esigenza di chiarezza) dove trovare i film che valgono, quelli destinati a restare.
L’uno è quello del film “d’arte”, coi suoi connotati di aristocrazia, spesso di sperimentazione, comunque di difficoltà. L’altro è quello del cinema popolare (evito volutamente la definizione di “cinema commerciale”, molto amata dagli imbecilli). Il quale, conviene specificare, non deve coincidere di necessità col film povero, artigianale, il B-movie; anche a parte i vari film popolar-autoriali, da Peter Weir a Michael Mann, sono esempi recenti di blockbuster di valore la saga di Harry Potter o i nuovi “Star Wars” o il solido e classico “L’ultimo samurai” di Zwick, e chi più ne ha più ne metta.
Col che sembrerebbe che abbiamo chiuso il cerchio. Invece resta un vasto settore di film praticamente irredimibili: non i film d’arte ma i film arty. Sono opere, genericamente di modesto spessore, che si danno una coloritura di “artisticità” mimando quei valori estetici che riescono a raggiungere. Per questo adottano - di solito chiassosamente - forme espressive avanzate, che servono come orpello. Incapaci di raggiungere il livello dell’arte aristocratica, mancanti altresì della solida bellezza del cinema popolare, “a Dio spiacenti ed a’ nemici sui”, questi prodotti “midcult” elaborano una raffinatezza contraffatta e artificiosa per confondere gli spettatori. Sono film-bluff, che in genere sotto il travestimento da prodotto “alto” sfruttano meccanismi narrativi ed effettistici propri delle “pratiche basse” (per esempio, quelli che ritroviamo nella soap opera).
Di tutto ciò è un esempio “21 grammi”, film americano del messicano Alejandro González Inárritu, da una sceneggiatura di Guillermo Arriaga. Un film ridondante di “consapevolezza”, nel senso più negativo del termine: la consapevolezza del “packaging” per cui l’autore affastella effetti “moderni” allo scopo di conferire alla sua opera un’aria “artistica” fasulla e kitsch.
L’aspetto più evidente è il suo montaggio “pointilliste” (si può usare tranquillamente il termine, dopo che Bugs Bunny l’ha spiegato a tutti in “Looney Tunes Back in Action”): la narrazione è frazionata in una serie di “tessere” temporali scompigliate, talvolta ritornanti, per cui si crea un effetto mosaico; la comprensione della vicenda nello spettatore si crea per giustapposizione, man mano che procede il film, i “buchi” si colmano e anche le anticipazioni tornano al loro posto. Eguale effetto arty fa la fotografia “sporca” e sgranata firmata da Rodrigo Prieto. Sono mezzi più che leciti, s’intende, ma non quando servono, come qui, a uno sfoggio esteriore e opportunistico.
La sceneggiatura è di un effettismo perverso, nel suo interminabile sviluppo dove una casualità che tradisce più che mai il suo carattere manovrato spiraleggia in ampliamenti basso-romanzeschi sempre più arrischiati. La narrazione mostra così la sua parentela con lo sviluppo “autogeno” proprio della soap opera televisiva. Davvero, in confronto allo sceneggiatore Arriaga la nostra Liala, quanto a capacità di costruzione narrativa, sembra Dickens.
Il dialogo è lardellato di battutone teatral-televisive tanto solenni quanto banali, rivendute speranzosamente come “discorso alto”. Esempio, il protagonista col cuore trapiantato, volendo sapere chi era il donatore, solennemente enuncia: “Voglio solo sapere chi sono!” (vien da rispondergli: “E come non lo sai, pirla? Sei Sean Penn che imita Al Pacino”).
Alejandro González Inárritu aveva debuttato con “Amores perros” che pur essendo derivativo (un riferimento evidente era Buñuel) non era affatto male. Con questa prova americana manierata e furbetta mostra tutti i suoi limiti. Al di là del suo princisbecco modernista “21 grammi”, con tutta la sua verbosità sui massimi sistemi, è un film che parla esclusivamente a se stesso. Non un film artistico, un film autistico.

(Il Nuovo FVG)

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