lunedì 7 gennaio 2008

Lemony Snicket: Una serie di sfortunati eventi

Brad Silberling

Detto in due parole, “Lemony Snicket: Una serie di sfortunati eventi” di Brad Silberling è un film di Tim Burton senza Tim Burton. Per il difficile compito di portare sullo schermo la fantasia nera dei meravigliosi (e crudeli) romanzi per bambini di Lemony Snicket, il regista naturale sarebbe stato l’autore di “Sleepy Hollow” - del che sono tanto consapevoli i produttori che si direbbe abbiano voluto consciamente fare un film “alla maniera di”. Conseguenza, “Lemony Snicket” è un film onestamente trascritto, ha buoni valori produttivi, è indubbiamente godibile - ma per tutto il tempo della visione senti che manca qualcosa.
In effetti gli autori di “Lemony Snicket”, più che il regista Brad Silberling e lo sceneggiatore Robert Gordon, sono il magnifico scenografo Rick Heinrichs (cui va aggiunta Colleen Atwood per i costumi), e poi gli attori: i quali, nella loro immaginifica deformazione, diventano a loro volta pupazzi scenografici, schizzi, cartoons, disegni di humour e d’incubo. Come molto cinema d’oggi “Lemony Snicket” è “in toto” (e necessariamente, stante il soggetto) cine/grafica.
Anche la fotografia di Emmanuel Lubetzki porta il suo contributo; forse solo in Shyamalan si è vista di recente una tale pregnanza “atmosferica”, sensoriale; penso alla parte sul Lago Lacrimoso (che potrebbe essere la migliore del film), dove i colori spenti fanno letteralmente sentire sulla pelle quell’atmosfera umida sotto un cielo grigio.
Gli interpreti sono eccellenti, e tutti pienamente inseriti in questa concezione “grafica” complessiva. Vale per gli orfani Baudelaire (Emily Browning e Liam Aiken; la terza, Sunny, ha due anni, onde non è questione di recitazione ma d’inquadratura e montaggio; e in realtà erano due gemelle); vale per il gustoso cameo di Meryl Streep come vedova nevrotica; e vale in particolare per Jim Carrey, pietra angolare del film. Che Carrey sia un grande lo sapevamo fin dai tempi di “Ace Ventura”, ma - col ruolo sfrenatissimo del perfido guitto Conte Olaf e dei suoi vari travestimenti - “Lemony Snicket” gli offre la parte della sua vita: e Carrey ci gode, ci impazza, ci trionfa dentro, ci sguazza, come Zio Paperone quando nuota nei dollari. Se questo film diventerà in qualche modo un cult, sarà grazie a Jim Carrey.
Il mondo dei romanzi di Lemony Snicket ricorda fortemente il mondo di Edward Gorey (che l’illustratore dei libri, Brett Helquist, tiene certo presente): una sofisticata ir/realtà tranquilla e minacciosa, un delirio quieto, che non sposta la narrazione su un realismo fantastico razionalmente comprensibile, à la Harry Potter, bensì rimane in una disturbante terra di mezzo fra la familiarità del reale e le logiche speculari del sogno. “Unheimlich” allo stato puro, direbbe il vecchio Freud. Queste storie dai titoli allitterati compongono una sorta di maxi-romanzo gotico sadico-umoristico, parodiante le vicende strappalacrime degli orfani perseguitati della letteratura ottocentesca. Questa delicata complessità non si ritrova nel film - anche perché la scelta di condensare ben tre dei romanzi nel plot rende tutto più superficiale.
La caratteristica più evidente dei romanzi di Lemony Snicket, e una componente basilare del loro humour, è la fortissima presenza della voce narrante dell’autore, con la sottile ironia delle sue spiegazioni linguistiche (“in questo contesto questa parola vuol dire...”). Di ciò il film riesce a dare un’idea, materializzandola nella figura in ombra dell’autore stesso. Così i piacevoli scherzi sull’eventuale finale non ci stupiscono: sono un elemento metanarrativo ovvio per un racconto in cui l’istanza narrante enuncia così fortemente se stessa.
Tuttavia questa versione cinematografica rimane un po’ impoverita rispetto ai romanzi. A tal proposito, non perdetevi i titoli di coda con disegni semi-animati di gusto antico che hanno una vaga malinconia davvero “lemony-snickettiana” - per cui sono, verrebbe voglia di dire, la parte migliore del film.

(Il Nuovo FVG)

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