lunedì 7 gennaio 2008

Agata e la tempesta

Silvio Soldini

“Mi piacerebbe cantar / una canzone intelligente / che segua un filo logico importante / che parli un po’ di tutto - e un po’ di niente”. Così cantavano ai tempi loro Cochi e Renato. Perché questa reminiscenza? Perché ripensando al discreto, ma non pienamente riuscito, “Agata e la tempesta”, nuova commedia di Silvio Soldini dopo “Pane e tulipani”, ci s’immagina in bocca al regista la stessa canzone: “Mi piacerebbe girar / una commedia intelligente...”. Non che sia un male girare una commedia intelligente, anzi! Ma in “Agata” questa preoccupazione si sente troppo, emerge, condiziona un film che risulta troppo consapevole; e questo è un difetto.
La trama è una serie di rivelazioni e agnizioni. Secondo uno sperimentato “topos” della commedia, l’architetto Gustavo (Emilio Solfrizzi) scopre di non essere figlio del padre di cui porta il nome; conseguentemente la libraia Agata (Licia Maglietta) non è sua sorella; e i due scoprono un “fratello”, che più bizzarro e diverso da loro non potrebbe essere, in Romeo (Giuseppe Battiston).
Il loro puzzle esistenziale va in pezzi e si riforma: per Gustavo, per Agata (che quando è inquieta ha la facoltà paranormale di far saltare le lampadine), per tutta l’umanità che gira attorno a loro, figli, amici, amanti, collaboratori, perfino la sindachessa di una città della Danimarca. Tutto il cinema di Silvio Soldini racconta di scherzi del destino, “scatti” che mandano i suoi personaggi fuori dai binari d’una vita prefissata. In “Agata” questa concezione è concretizzata nell’immagine del ciclista in surplace.
C’è molto di grazioso in “Agata”. Soldini instaura con divertita attenzione nel corpo del film tutta una rete di ritorni, di “correspondances”, quasi musicale. Vedi all’inizio (attenzione, lettore! Questa discussione del film ne rivela il finale. Chi lo debba ancora vedere, e voglia farlo con occhi vergini, è avvertito) come in due diverse scene vicine ritorna il comando di andare piano, “slow” (anticipando la morale che Soldini ribatte nel film: tenersi le porte aperte e vivere “slow”). O come alla fine il sangue sul viso di Romeo dopo l’incidente d’auto richiama la sua faccia impiastricciata di marmellata di more (una traccia erotico-gastronomica) nella scena precedente.
E’ gustoso seguire la peripezia psicologica dei personaggi; perché “Agata” è uno di quei film dove ci si innamora dei personaggi più che del racconto. Al pari di “Pane e tulipani”, la definizione dei personaggi secondari è particolarmente felice. Cito solo i due migliori, anche per poterne ricordare le eccellenti interpreti: Maria Libera, l’amica e collaboratrice di Agata, deliziosa figura quasi almodovariana (Giselda Volodi), e l’anziana ferrea “Geometra” dello studio di Gustavo (Carla Astolfi).
Tuttavia c’è in “Agata” anche molto che non funziona. Soldini, autore dai tempi aperti e sospesi, qui fortissimamente vuole dire, aggiungere, accumulare. “Agata” è sovraccarico: Soldini in questo film soffre di “horror vacui”. Così il suo “discorrere per accenni” diviene spesso un buttar via. Forse gli conveniva fare un film per la tv in quattro puntate, come Giordana con “La meglio gioventù”.
E quale insicurezza ha suggerito a Soldini e ai suoi co-sceneggiatori la soluzione banale e piuttosto stupida (e financo moralistica) dell’incidente mortale di Romeo alla fine? “Agata” si concludeva (la scena pre-finale con tutti al sole) coll’integrazione dei personaggi in una sorta di nuova armonia sentimentale ed esistenziale (coi deliranti progetti affaristici di Romeo). Si sospetterebbe che Soldini sia spaventato da questa armonia, e l’infranga, sentendola irrealistica (contraria alla “commedia intelligente”?). Troppo facile capire che all’indomani sarebbero nati litigi, e sui progetti di affari e sugli affari di cuore. Per forza! Troppo evidente è la precarietà, e quindi l’irrealtà, dell’armonia - ma quest’irrealtà dell’armonia è un portato della commedia come genere. Le commedie non hanno il giorno dopo.

(Il Nuovo FVG)

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