martedì 8 gennaio 2008

Le fate ignoranti

Ferzan Ozpetek

“Le fate ignoranti” di Ferzan Ozpetek, regista turco e italiano a un tempo, è come i versi del suo poeta-simbolo, Nazim Hikmet, un poeta turco del nostro secolo. Non si può dire che questi raggiungano la grande ispirazione; Hikmet non è T.S. Eliot o Dylan Thomas; ma è piacevole da leggere e da ascoltare, né manca di passaggi espressivi e commoventi.
Similmente, anche se questo film sulla morte non raggiunge mai l’ispirazione dello splendido “La stanza del figlio” di Nanni Moretti, “Le fate ignoranti” è piacevole da vedere, accuratamente costruito, non senza una buona dose di astuzia drammaturgica, pieno di trappoloni emotivi che scattano con puntualità. Ben recitato (Margherita Buy in primo luogo, ma anche Stefano Accorsi, e la veterana Erica Blanc, nella parte di una madre intelligente che, oltre a rappresentare il buon senso, fornire al film un accenno di umorismo), “Le fate” è un buon esempio di film medio: che non è una cosa da vergognarsi, anzi, è proprio quel che manca nel cinema italiano, dove di solito i film medi è meglio perderli che trovarli.
E’ interessante che i tre film italiani più interessanti del momento si incentrino tutti sulla morte. “La stanza del figlio” mostra in modo impressionante l’elaborazione del lutto; il bizzarro e bellissimo “I Cavalieri che fecero l’impresa” di Pupi Avati è un film medievale attraversato ossessivamente dalla morte, un film che comincia in un ossario e termina con la strage insensata dei protagonisti; “Le fate ignoranti” rappresenta quella scoperta che la morte talvolta porta circa la vita passata di chi conoscevamo. La morte spesso è come una luce accesa all’improvviso in una stanza in penombra, che ci rivela nuovi contorni e oggetti impensati. Così accade ne “Le fate”: solo dopo la morte del marito in un incidente Antonia/Margherita Buy scopre che lui aveva una doppia vita, una relazione omosessuale segreta con Michele/Stefano Accorsi; ma questo comprende anche certe micro-scoperte, minori ma autentiche (una delle battute del film che suonano più “vere” è un incredulo “Sapeva cucinare?!”).
Così Antonia, prima mossa da una curiosità rancorosa, poi con crescente adesione, entra a far parte del gruppo di amici gay che si riuniscono, con frequenti pranzi comuni, a casa di Michele; e che sono (con una certa dose di ottimismo statistico) tutti simpatici, buoni e belli. In questa casa dal grande terrazzo assolato il gruppo è una specie di famiglia alternativa nella quale trova voce il dolore (il dolore per il compagno scomparso e per la segretezza del rapporto, l’AIDS di cui sta morendo un altro personaggio, l’emarginazione, il rifiuto delle famiglie). Il film riporta tutto questo in modo un po’ didattico ma sentito, approfondendo una descrizione che all’inizio è stereotipata fino a sfiorare il macchiettistico (di certo Ozpetek non è Almodovar). La chiusa e trattenuta Antonia unendosi spiritualmente alla “famiglia” comprende e cresce. E’ il sogno della casa-comune, dove si mangia insieme e ci si vuole bene (“il sogno di una casa”, direbbe Pasolini?). Del resto questo concetto di un luogo/altrove dove rifugiarsi e sentirsi liberi è sempre stato presente nella filmografia di Ozpetek.
“Le fate” non è perfetto, si mostra artificioso in alcuni momenti, come ad esempio la sciocchezza melodrammatica, nel senso cattivo, sul giovanotto che ha preso l’AIDS per amore (“Volevo tutto di lui, anche la malattia”). Contestualmente, però, sa elevarsi in alcuni dettagli davvero buoni, come l’uso originale di un paio di bicchieri che cadono per dir/ci qualcosa. E’ interessante nel film l’uso dell’ellissi narrativa, a volte inusualmente forte: ovvero, parlandoci dell’evoluzione di Antonia Ozpetek (anche sceneggiatore con Gianni Romoli) ama lasciare certi mutamenti psicologici entro il non-detto delle ellissi, il che può indicare una fatica sul piano della costruzione del racconto, ma dà al film un andamento fratto, che si fa ricordare.

(Il Nuovo FVG)

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