martedì 8 gennaio 2008

La finestra di fronte

Ferzan Ozpetek

Prima di cominciare a imprecare contro il cinema italiano, conviene ricordarsi una cosa: il cinema italiano non esiste. Dal Sud arrivano - o fin qui no, però potrebbero - film vivaci, intelligenti, realizzati con fantasia (“L’imbalsamatore”, “Incantesimo napoletano”, “L’uomo in più”). Quello cui invece appartiene “La finestra di fronte” di Ferzan Ozpetek si dovrebbe piuttosto chiamare cinema romano: un cinema pseudo-autoriale falso e furbetto, quel genere di opera media artefatta e costruita, che cerca di vendersi come opera alta, per il quale è stata coniata la parola Kitsch.
Un’insincerità di fondo, non morale ma drammaturgica. Da tempo il cinema “italiano” non sa delineare personaggi di carne e sangue, perché gli mancano sia l’osservazione realistica del mondo sia quella capacità di costruire uno stereotipo credibile ch’era la grande dote dei nostri vecchi sceneggiatori. Vedi, ne “La finestra di fronte”, la protagonista Giovanna (Giovanna Mezzogiorno). All’inizio quando compare litigando col marito risulta una rompiscatole di ingiustificata incazzosità. Il perché è oscuro ma forse la sceneggiatura di Ozpetek e Gianni Romoli allude alla sua frustrazione. Comunque lei non cessa di rognare, pure quando il pasticciere smemorato piovuto in casa (Massimo Girotti) prepara la prima colazione: “Mangia una crêpe” - “Non mi va” (regola fondamentale di vita: non fidatevi mai, mai, mai di una persona capace di rifiutare una crêpe). Questa donna è un incitamento vivente all’uxoricidio. Poi di punto in bianco le cose si rovesciano, lei è ragionevole e umana, e da quel momento lo scemo è il marito.
In realtà si capisce che il racconto tenta goffamente di dipingere un cambiamento, dove il misterioso vecchio è l’elemento catalizzatore. Ma queste figurette non hanno né coerenza né una psicologia definita: sono pupazzi, marionette tirate da fili drammaturgici visibilissimi, nel progetto di ottenere un effetto sentimentale sciatto e telegrafato.
Ferzan Ozpetek è un regista di medio livello che in passato ha mostrato (“Le fate ignoranti”) di saper arpeggiare su un bozzettismo abbastanza gradevole, proponendosi come una specie di simil-Almodovar minimo ma simpatico. Di questo spirito sopravvive solo il personaggio dell’amica Nenè, che qui serve a rappresentare quel minimo di “trasgressivo” che Ozpetek usa come marchio di fabbrica. Per il resto... In una scena di imbarazzante goffaggine, Giovanna vuole andare a letto col belloccio occhialuto Raoul Bova (in camera, le classiche candele da scopata fantozziana) ma ad un tratto interrompe, apre la finestra, vede l’insopportabile marito e i figli - e così Raoul Bova va in bianco, e il film non ha l’imbarazzo di mostrare un adulterio (morale: gratta il libertario gay turco e trovi il prete).
Probabilmente - o forse no - questo dramma spompato si potrebbe anche sopportare se il regista non l’avesse avvolto in un estetismo trombonesco da film tv (come quello appena visto nel “Maria Goretti” di Giulio Base). Anche le parte relativa alla distruzione del Ghetto romano da parte dei nazisti, evocata in flashback, è estetizzante la sua parte (quei giochi sul tempo). E’ vero che il film contiene almeno un momento assai convincente per la pregnanza dei visi, quello delle due donne ebree al negozio: è la sequenza migliore dell’intero film; ma la sua voluta teatralità stride in un’operina così annacquata.
Si toccano anche punte di vera ridicolaggine; vedi, nella visita di Giovanna a casa del vecchio, l’orrendo stacco su di lei che prepara una torta, simbolo di riscatto, sulle note trionfali di Nada che canta “Ma che freddo fa” - e qui, se non ci fosse il rischio di disturbare gli altri spettatori, vien la tentazione di mettersi sull’attenti e salutare militarmente: siamo in presenza di uno dei vertici di trash assoluto del cinema italiano. In conclusione, che dire? Bisognerebbe andare a vedere “La finestra di fronte” vestiti di cuoio e di latex: è un’operazione masochistica.

(Il Nuovo Friuli)

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