venerdì 4 gennaio 2008

La stella che non c'è

Gianni Amelio

Meno ispirato di altri film di Gianni Amelio, “La stella che non c’è” (liberamente tratto da “La dismissione” di Ermanno Rea) racconta del “manutentore” Vincenzo Bonavolontà (Sergio Castellitto), preoccupato perché sa che un altoforno venduto ai cinesi e spedito in Cina contiene un difetto strutturale che può provocare disastri. Poiché la delegazione cinese non gli dà retta, lui si sobbarca un viaggio in Cina, alla ricerca della fabbrica dov’è finito l’altoforno, portandosi in borsa la centralina modificata che risolverebbe le cose. Lo accompagna l’ex interprete Liu Hua (l’eccellente attrice esordiente Tai Ling), che era stata licenziata per colpa sua.
S’intende che “La stella che non c’è” è anche un documentario di Gianni Amelio sulla Cina: uno sguardo di scoperta, impressionistico, dato che emerge dallo sfondo della narrazione, ma vivo e concreto (uno dei casi in cui la sceneggiatura funziona bene è il modo in cui fa emergere in brevi accenni la questione dei bambini che “non esistono”, in quanto non denunciati alla nascita a causa delle leggi sul controllo delle nascite).
Le belle inquadrature della Cina fisica nella fotografia di Luca Bigazzi colpiranno gli spettatori, tanto più che in Italia non si conosce il cinema cinese: chiaro che possiamo trovare un uso ancora più evocativo di questi paesaggi, o simili, nei film di Feng Xiaogang, Feng Xiaoning, Huo Jianqi, Yang Yazhou, Ann Hui, per citare i primi registi che mi vengono in mente. Ma soprattutto milita a favore del film di Amelio la bellezza dello sguardo gettato sulla popolazione cinese: le case affollate, i bambini che sciamano dappertutto, le fabbriche “in cortile”: uno sguardo lucido e allo stesso tempo partecipe, senz’ombra di esotismi. Talvolta sembra perfino di cogliere un accenno di neorealismo nell’uso di certi visi e figure.
E poi c’è la nuova Cina, che si tuffa a capofitto nella modernità. Alcune battute iniziali del film sembrano proporne l’impostazione ideale: “Ogni guasto si può aggiustare, ci sto lavorando da tanto tempo”, dice Castellitto ai cinesi, e “Con l’acciaio non bisogna avere fretta”. Cui si oppone la frase di un operaio ad altoforno smontato: “Con la fiamma ossidrica hanno fatto presto” (proprio la fiamma ossidrica aveva sconsigliato Castellitto). Nell’opposizione “non avere fretta”/“far presto” si potrebbe vedere un asse portante del film (divertente rovesciamento, in Cina quello che ha fretta è il nervoso, ossessionato Castellitto, fino a mettersi nei guai con la polizia locale). Il “tempo lento” espresso da Castellitto contrasta con la frenesia di sviluppo della nuova Cina dei grattacieli; una Cina, sembra dirci Amelio, che ha fretta. Ma il regista osserva il contrasto/commistione fra questa nuova Cina e quella millenaria senza voler fare il grillo parlante.
Il problema del film sta nella realizzazione del racconto base, non priva di goffaggini, a partire dalla definizione del personaggio di Castellitto: sempre antipatico, sempre ingrugnato, che esordisce umiliando la traduttrice (come dicono i cinesi le fa perdere faccia); è un espediente che serve all’economia del racconto (così viene licenziata e quindi lui la ritrova in Cina) ma è concretizzato in modo grossolano. Tai Ling è bravissima a fare la faccia incavolata, e la si capisce - cosa deve fare, con un fesso simile? E fesso il personaggio lo è un po’ troppo, per un film realistico: vedi quando provoca i fin troppo pazienti poliziotti cinesi, o quando cerca di parlare a un operaio con i gesti e gli infiniti.
“La stella che non c’è” è un film che a volte sbanda; improvvise goffaggini si accompagnano a pesanti momenti di “poeticismo” molto all’italiana (forse attribuibili, visti i suoi film precedenti, al co-sceneggiatore Umberto Contarello). Un film tra l’altro che non sa finire, e dei tre possibili finali (la scena in fabbrica, il pianto sulla barca, l’incontro alla stazione) si prolunga fino all’ultimo: il peggiore. Non un film mediocre - ma certo non un film centrato.

(Il Nuovo FVG)

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