venerdì 4 gennaio 2008

Così ridevano

Gianni Amelio

L'aspetto più geniale dello splendido film di Gianni Amelio “Così ridevano”, Leone d'oro a Venezia, è proprio quello per cui qualcuno lo ha improvvidamente criticato: isola, come cinque piccoli film, cinque momenti della vita di Giovanni e Pietro Scordia, nel quadro dell'emigrazione meridionale a Torino nei Cinquanta, lasciando il resto nell'ombra. Si tratti o no di svolte biografiche (per esempio l'omicidio), proprio l'emergere assoluto di questi passaggi dà loro una luce significante: la potenza di questi frammenti viene esaltata dalla narrazione che li intervalla di larghe ellissi, in cui gli interstizi di vita vengono inghiottiti come in buchi neri. Il film si brucia in queste cinque giornate. Ciò fa riflettere che c'è un elemento di intensità implicito nel concetto stesso dell'ellissi, per quel suo incidere (amputare) il tessuto narrativo. Mantenendo la metafora chirurgica, potremmo dire che ogni ellissi è una cicatrice.
Gianni Amelio congiunge nel suo cinema l'evidenza rosselliniana del visibile, gridata dai dettagli, dai movimenti, dai volti, e la percezione moderna del cinema come artificio e narrazione: è questa consapevolezza a consentirgli grandi soluzioni classiche, zoom enunciativi, chiusure in dissolvenza, in un voluto “finto” che si riverbera nel suo stesso uso del cinemascope. “Così ridevano” ha il coraggio di essere un film di carne e di sangue del sentimento: la storia di un amore fraterno così disperato e radicale da rasentare la follia, entro uno svolgimento di ascesa e caduta: caduta perché si chiude nella robina dei desideri.
Per questo “Così ridevano” è un mélo. Giustamente è stato allegato il nome del grande Raffaello Matarazzo; ma quell'elemento di eroica astrazione delle passioni che contiene il film fa risalire addirittura a Douglas Sirk. Rientra nell'universo del mélo l'importanza simbolica che assumono alcuni oggetti; in primo luogo, naturalmente, i libri, che materializzano l'ossessione di Giovanni di far studiare Pietro; ma vedi anche l'inutile corsa finale di Giovanni verso il treno con la gazzosa in mano. Giovanni è una figura verghiana: è un vinto, anche nella sua ricchezza di piccolo boss della mafia del lavoro , perché – situazione classica del mélo – non raggiunge mai quello che ha veramente amato e voluto. E' l'amore che si esprime di fronte al silenzio, all'inafferrabilità dell'oggetto amato. Di fronte alla passione di Giovanni, Pietro è l'Altro, non sa rispondere, è avvolto in una ragnatela di diversità non dette e di inganni; il suo proprio amore riesce a esprimersi solo nel sacrificio suoicida finale dell'assumersi una colpa non propria. “Così ridevano” si chiude su un disperato silenzio nella sequenza di una festa: momento di raduno e bilancio finale – come la “Festa dei vivi e dei morti” che chiude “Heimat” di Edgar Reitz, un film che ha qualcosa di analogo – che qui è un bilancio di sconfitta.
Mentre Giovanni (gli occhi urlanti, affamati, spiritati di Enrico Lo Verso) è l'uomo dell'espressione, Pietro (gli occhi opachi, lucidi, impenetrabili di Francesco Giuffrida) è l'uomo del silenzio. Quanto uno esce da sé, ci getta la sua realtà in faccia, tanto l'altro la nega, al fratello e a noi, ci attrae nel suo mistero. “Così ridevano” è un film tragicamente implosivo (la manifestazione con le bandiere rosse di una sequenza è esterna, astratta, coloristica come nel “Siciliano” di Michael Cimino). Lo segnala il raffinatissimo uso della messa a fuoco nell'episodio intitolato “Sangue”, dove lo spazio del visibile si contrae, si ritira addosso ai protagonisti, come se volesse restringersi nella loro pelle.
E' riduttivo intendere “Così ridevano” solo come un quadro della grande emigrazione meridionale al nord, anche se probabilmente è il miglior film su quest'argomento dai tempi di Visconti. Tuttavia con esso Amelio, che già ci aveva raccontato il nostro ieri sotto la metafora geografica de “Lamerica”, coi ha dato il suo grande film sul passato italiano.

(Il Friuli)

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