sabato 12 gennaio 2008

La sposa di Chucky

Ronny Yu

Il matrimonio fra Hollywood e Hong Kong non è sempre andato liscio; ne sanno qualcosa Ringo Lam e John Woo. Così quando l’elegante regista Ronny Yu (autore a Hong Kong del capolavoro fantasy-mélo “The Bride with the White Hair”, nonché di “The Phantom Lover”) ha preso in mano addirittura un sequel di serie, “Bride of Chucky”, quarto episodio di “Child’s Play” (da noi “La bambola assassina”), ben si poteva temere un prodotto anonimo. Certo, la serie di Chucky - la bambola vivente posseduta dall’anima di un assassino esperto in pratiche voodoo, che vuole ritrasferirsi in un corpo umano - è di buon livello, come mostrano i primi due episodi diretti dai bravi Tom Holland e John Lafia (il terzo, di Jack Bender, è inedito in Italia); inoltre i sequel sono comuni nel cinema hongkonghese; ma chi avrebbe mai immaginato Ronny Yu per questo incarico?
E’ stata proprio la novità del compito a tentare Yu, racconta il regista in un’intervista a “Fangoria”. E aggiunge che nel 1997, in un incontro con 300 studenti universitari in Australia, giacché aveva ricevuto due offerte dall’America pensò di chiedere loro un parere su quale scegliere. Uno era un film d’azione con Wesley Snipes: approvarono, senza entusiasmo. L’altro, disse, era un azzardo per lui: “Bride of Chucky”. “Fu strano. Una risposta strepitosa. La gente rideva, applaudiva. Dissero: ‘Lei può fare un bel lavoro, perché lei ha un bizzarro senso dello humour, e ha quel suo stile visuale. Lei può trasformare quel prodotto di formula’”.
Bisogna concludere che gli studenti australiani se ne intendono di cinema, perché questo è esattamente il risultato conseguito da Yu col bellissimo “La sposa di Chucky”. Si tratta di un felice incontro tra la raffinatezza estetica di Yu e l’intelligente umorismo horror della serie americana. La spiritosa sceneggiatura è di Don Mancini, autore degli altri episodi; i trucchi sono come sempre di Kevin Yagher; Yu ha portato nel film la sua équipe, ovvero il montatore David Wu e l’ottimo direttore della fotografia Peter Pau. In effetti “La sposa di Chucky” entra in modo riconoscibile nella filmografia di Yu, anche da un punto di vista strettamente visuale. Le sue inquadrature stilizzate, i suoi freddi blu ricordano da vicino “The Bride with the White Hair”; scene già viste mille volte come l’esplosione di un’auto sono vivificate dalla pulsione estetizzante tipica del cinema hongkonghese; i vividi dettagli, le strane soggettive e in generale la maestria delle riprese - vedi per esempio la magnifica conclusione - elevano nettamente il film sopra la media degli horror.
Com’è naturale “La sposa di Chucky” si inserisce in una corrente manierista e citazionistica. Il film è attraversato da scherzi cinefili, dall’apparizione all’inizio, nel deposito prove della polizia, delle maschere di Jason (“Venerdì 13”) e di Michael Myers (“Halloween”) fino all’ultima sorpresa, che non vado a rivelare ma che cita il più famoso film di Larry Cohen (e con questo temo di aver già detto troppo). Il film scherza gustosamente sulla condizione di bambolotti di Chucky e della sua fidanzata Tiffany (interpretata “da umana” da una grande Jennifer Tilly): sono due personaggi formidabili e, oltre ai massacri sempre graficamente piacevoli, è una delizia vedere le due bambole che fumano uno spinello o che fanno sesso, con tanto di dialogo sul preservativo.
Verso la conclusione “La sposa di Chucky” apporta a questo spirito “light-hearted” una sottile svolta mélo, con la semidistrutta Tiffany buffa e straziante allo stesso tempo. Non per nulla è il film più apertamente mélo della trilogia di Boris Karloff quel “Bride of Frankenstein”, 1935, che il presente film cita fin dal titolo, e che Tiffany guarda in tv, piangendo, in una scena capitale. Il cerchio narrativo di “Bride of Chucky” si chiude riallacciandosi direttamente al commovente climax del vecchio film di James Whale. Così, senza mai rinnegarsi, l’umorismo sfocia per bizzarre vie nel sentimento - e questo è proprio Ronny Yu.

(Il Nuovo FVG)

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