martedì 8 gennaio 2008

La regina dei dannati

Michael Rymer

Il velenoso principio di fascino sotteso a “La regina dei dannati” di Michael Rymer è la morte. Ma non la morte letteraria (Anne Rice) del vampiro Lestat, col suo blablà sull’eternità come condanna alla solitudine eccetera eccetera - su cui sono stati ben più convincenti Werner Herzog e F.F. Coppola - bensì la morte tragica e materiale della splendida Aaliyah, interprete del ruolo di Akasha. La giovane cantante nera, che aveva debuttato al cinema accanto a Jet Li in “Romeo deve morire”, è scomparsa in un incidente aereo prima che “La regina dei dannati” fosse completato. Il film è dedicato a lei. Anche lei come i vampiri - inevitabile cortocircuito! - con questo film ritorna dalla tomba in una immortalità spettrale (e pure su questo, il cinema come vampirismo, ha detto una parola definitiva Coppola nel magnifico “Bram Stoker’s Dracula”).
Ecco il problema del cinema di restituire la vita agli attori morti durante le riprese. O (oggi) attraverso l’intervento brutale e meccanico del digitale, che annulla l’ombra di fisicità dei corpi in un’infinita riproducibilità: Oliver Reed ne “Il gladiatore”. O con il gioco di prestigio narrativo - la cui destrezza lo rende non solo più interessante ma più meritorio - del re/impostare la sceneggiatura a partire dal girato, anziché viceversa: Jean Harlow in “Saratoga” (1937). “La regina dei dannati” sceglie questa via. Non essendo un particolare ammiratore di Anne Rice, mi scuso di non conoscere il romanzo da cui il film è tratto e quindi di non poter discutere quanto sia stata modificato in sede di sceneggiatura il ruolo di Akasha. Certo però nel film la limitazione e la concentrazione delle sue apparizioni isolano il personaggio in una sorta di solennità; anche se l’impianto narrativo cigola alquanto (vedi la voce “over” di Lestat, di cui prima il film fa abuso e che poi sparisce).
Con la sua presenza delirante e magnetica Aaliyah regala le sole immagini realmente memorabili a un film altrimenti semplicemente passabile, divertente ma non rilevante, basato com’è su una concezione “elegante” di piccolo romanticismo tipica di Anne Rice. La Rice non ha fatto che ripristinare e popolarizzare quei cascami byroniani che già nel primo ‘800, con Polidori, stavano alla base del vampiro letterario; anche nel film i suoi vampiri “belli e dannati”, Lestat, Marius eccetera, non escono da questa logica alquanto kitsch. Invece Aaliyah (per una felice combinazione di sceneggiatura, scenografia e carisma dell’interprete) dà corpo all’unico personaggio veramente “outré”. Una figura eccessiva che a tratti sembrerebbe (sto pensando alla sua danza, erotica e feroce, nella scena di apparizione) non indegna di Ken Russell.
Basato su un delizioso lavoro scenografico di Graham “Grace” Walker, “La regina dei dannati” celebra definitivamente l’unione fra il vampirismo e la musica rock, col suo vampiro Lestat che, tornato dalla tomba, diventa una rockstar, ma più in generale con tutto il suo gusto dell’esibizione: è un tocco intelligentemente conscio che una delle scene nodali abbia luogo proprio sul palco di un concerto rock. Niente di nuovo, certo; anni fa l’interessante “Vamp” di Richard Wenk aveva anticipato “La regina dei dannati” per più di un aspetto, compresa la vampira negra ultra-fetish. Da un pezzo iconografia rock e iconografia vampiresca tendono a coincidere: come direbbe “Vogue”, da quando il vampiro moderno ha abbandonato lo smoking e il mantello nero foderato di rosso, il look rockettaro nelle sue varie forme, dal punk al feticismo sadomaso, è stata la scelta obbligata.
Fa modernità stile MTV pure la scelta di Lestat di dichiararsi pubblicamente come vampiro, contro le regole della sua razza (grandi le riprese del pubblico al concerto, coi fan plaudenti e sparsi tra loro un pugno di vampiri incazzati!); è il panorama kitsch del “politicamente corretto”: in fondo, Lestat ha fatto l’“outing”. Del resto, lo scontro finale ci presenta una specie di Associazione Vampiri Democratici contro la dea-regina feudale. Forse come umano non lo dovrei dire - ma era meglio lei.

(Il Nuovo FVG)

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