mercoledì 9 gennaio 2008

Io non ho paura

Gabriele Salvatores

Gabriele Salvatores è, a parere di chi scrive, un regista sopravvalutato. Nondimeno, con “Io non ho paura” ha girato la sua opera migliore e più matura; l’unica finora, oserei dire, destinata a rimanere fra i film importanti del cinema italiano. E ha fatto questo non annullando la sua individualità bensì ridefinendola: vale a dire mantenendo certe caratteristiche (un linguaggio cinematografico piuttosto caricato, un’oscillazione fra tentazioni naturalistiche e soprassalti poetici) che in altri suoi film risultavano dei difetti, ma qui sono riassorbiti in un discorso coerente, che col dar loro un senso li rivaluta.
“Io non ho paura” porta sullo schermo il romanzo di Niccolò Ammaniti. Nel feroce Sud degli anni ’70 un bambino, Michele, scopre un coetaneo imprigionato in una fossa in condizioni disumane da una banda di rapitori, della quale, scopre, fanno parte i propri genitori. Va riconosciuta a Salvatores un’autentica capacità narrativa nel delineare questo cupo racconto, avvalendosi di un eccellente gruppo di attori: tanto i piccoli (fra cui i protagonisti Giuseppe Cristiano e Mattia Di Pierro) quanto gli adulti, capitanati da un Diego Abatantuono di memorabile malvagità. Ciò anche grazie alla sceneggiatura di Niccolò Ammaniti e Francesca Marciano che, cosa rara per un film italiano, è molto buona, compresa l’autenticità dei dialoghi.
A proposito della prigionia nella fossa, l’insostenibilità della visione (il film su questo punto è veramente crudo) rischiava facilmente di travolgere il regista in un compiacimento dell’effetto “shocking”: Salvatores ha già costruito su quello un film confuso e bruttissimo quale “Denti”. Invece in “Io non ho paura” il naturalismo non è che un punto di partenza. Ben fotografato da Italo Petriccioni, il film sfrutta abilmente la doppia opposizione buio-luce/chiuso-aperto: il perimetro sotterraneo, fangoso e terrorizzante, della buca-prigione contro la dimensione aperta e solare, ma anche misteriosa e magica, degli sterminati campi di grano. E con quest’aggettivo, “magica”, entriamo nel cuore del discorso.
Il tema del film è l’orrore trascritto ad occhio di bambino. L’opposizione fra l’universo dei bambini e l’universo dei “grandi”, come sono sempre chiamati (terribile frase rivelatrice quando Michele racconta a un amico del bambino nella buca: “ce l’hanno messo i grandi”) non mette in crisi solo il piano morale; di più, la stessa catena dei fatti si trova spostata su un piano allucinato, non di incomprensione ma di comprensione deformata, in un vortice quasi delirante e onirico.
Il film esprime questo stato attraverso l’uso degli animali, ossessivo, che corre in parallelo al racconto (è interessante che Michele quando deve farsi coraggio reciti una litania magica contro le bestie notturne). Il pollo morto piantato su un palo all’inizio (una visione-segnale non meno paurosa che l’animale sul palo in “I Walked with a Zombie” di Tourneur), le formiche, i falchi, le bisce, il passero, il rospo, il ragno peloso, il riccio sulla strada, le api che sciamano, il grido di “Zitte voi!” alle cicale, il topo preso dal rapace, il barbagianni, il recinto dei maiali... Gli animali ritornano implacabilmente come filo conduttore, linea parallela del racconto, inquietante presenza. Che si lega facilmente alla grandezza risonante degli spazi aperti in opposizione all’abisso fangoso della fossa - dove il bambino prigioniero reinterpreta la sua condizione di sepolto vivo convincendosi di essere morto.
Il suo coerente spostamento della visione nell’universo infantile nobilita il racconto sottraendolo alle tentazioni di un naturalismo bruto. Così, riferimenti possibili che questo film richiama alla memoria (e già abbiamo citato Tourneur) potrebbero essere “Il signore delle mosche”, com’è ovvio, ma anche “I giorni del cielo” di Terrence Malick, e certamente “Riflessi sulla pelle” di Philip Ridley. Tutti esempi di grande cinema visionario di trascrizione allucinata del mondo.

(Il Nuovo FVG)

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