martedì 8 gennaio 2008

La polveriera

Goran Paskaljevic

Nel girone più profondo dell’inferno balcanico sorge la città di Belgrado. Benvenuti all’inferno, sembra dirci il viso truccato e ghignante del cabarettista del Cabaret Balkan che emerge in primo piano dal buio nell’apertura “espressionista” de “La polveriera”, del regista serbo Goran Paskaljevic. “I Balcani sono una polveriera”, dice un personaggio, “sono il buco del culo di questo pianeta”. Fa il tassista stupito al compatriota che torna dall’estero: “E’ un paese di merda questo... chi ha cervello si è dato... lei torna indietro!?”. E, con la sigaretta in bocca: “Lo so, uccide - qui tutto uccide”.
La macchina da presa di Paskaljevic segue i personaggi - un gruppo di bravissimi attori serbi, di cui il più noto da noi è Miki Manojlovic - secondo un procedimento narrativo a storie interlineate. E’ un viaggio allucinato e perverso, quasi dantesco, in una Belgrado demoniaca del tutti-contro-tutti. Una rabbia sorda, covata per secoli, distruttiva e autodistruttiva, esplode in scoppi di violenza improvvisi, imprevedibili, devastanti. I volti diventano maschere e ghigni. Anche le parole sono pugni; vedi l’episodio dei due amici pugilatori (forse il più intenso e convincente del film) che si confessano annosi tradimenti reciproci fra risate e ferocia, fra cazzotti e baci, fra il tragicomico e la tragedia pura. Nessuno è innocente qui. L’alternativa manzoniana tra fare il male e subirlo si trasforma in un circuito vittime-carnefici-vittime, un riversarsi continuo della violenza da un corpo all’altro, in cui le vittime diventano carnefici e viceversa, come vediamo (a ritroso) nel memorabile episodio del poliziotto e del tassista. Questo circuito tragico investe anche una delle figure simboliche ritornanti nei film di Paskaljevic, il vecchio saggio portatore di pace (come nel bellissimo, inedito in Italia, “Zemaljski dani teku”, “I giorni passano sulla terra”); ne “La polveriera” il professore bosniaco rifugiato che rappresenta l’onestà di fronte a suo figlio aspirante delinquentello, e gli grida “E’ meglio guidare l’autobus che rubare e trafficare”, si trova poi a sfasciare la testa di un teppista con il cric (rivendico la mia libertà di spettatore di approvarlo e gioirne, ma questo non è il discorso di Paskaljevic).
Come del resto segnala il Cabaret Balkan, “La polveriera” (tratto da un’opera teatrale di Dejean Bukovski) si situa, cosa molto consona al regista serbo, fra il naturalismo e un recitativo grottesco di derivazione teatrale. Ben si vede nel dialogo: c’è un forte elemento declamatorio nel film, denso e solenne. L’elemento teatrale tende ad emergere troppo nella seconda parte della pellicola, quando il film diventa un po’ manieristico: una sorta di tremendismo balcanico che un po’ confligge con l’aspra, dolorosa robustezza della prima parte. Ma almeno per la prima ora “La polveriera” è un capolavoro; nonché uno dei pochi film che si dovrebbero assolutamente vedere per capire la Serbia.
Nel corso degli anni Goran Paskaljevic (nato nel 1947, autore di una dozzina di film) ha tinto sempre più di nero la sua visione del mondo. In origine si caratterizzava per un’osservazione penetrante della realtà frammista a una certa tendenza sentimentale; una vena di humour teso a scoprire le forme del “meraviglioso quotidiano”; un’illustrazione minuta, sempre sull’orlo del naturalismo, al quale va attribuita una cupa fascinazione della violenza, messa in scena con un orrore estremizzante. Ora però il suo universo sembra senza speranza, in marcia verso la distruzione. Difficile negare a Paskaljevic (e a Dejean Bukovski) il dono della profezia. L’esplosione finale (quando un fiammifero cade sulla benzina versata dai ladri) che conclude il film sul fermo immagine dell’ultimo colpevole-divenuto-vittima anticipa in modo raggelante gli orrori del Kossovo e le bombe che oggi piovono su Belgrado.

(Il Nuovo FVG)

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