martedì 8 gennaio 2008

La nona porta

Roman Polanski

Ben ritrovato, Monsieur Polanski. Dopo la parentesi negativa del brutto “la morte e la fanciulla”, il regista riappare in buona forma col thriller bibliofilo-demoniaco “La nona porta”, in cui ritroviamo una serie di suoi temi classici: in primo luogo, la malvagità e l’assurdo come costituenti fondamentali del tessuto dell’esistenza - e non è la prima volta (“Rosemary’s Baby”) che Polanski ipostatizza questo concetto nel diavolo. E’ sintomatico che “La nona porta” non sia piaciuto agli americani. Benché scandito da una serie di morti ricche di barocco fascino visuale, il film gioca molto sull’atmosferico e sull’implicito - cioè contro la tendenza, forte nel cinema americano contemporaneo, verso l’estrema chiarezza, l’assoluta spiegazione. Per esempio: attenzione all’incisione, d’ispirazione apocalittica, della donna a cavallo della Bestia, che appare più volte nel film. E’ una chiave per lo svolgimento e il finale.
Dean Corso/Johnny Depp, esperto di libri antichi, è incaricato di confrontare le sole tre copie esistenti di un testo del Seicento - “De umbrarum regni novem portis” - che permette di evocare il demonio. In tutto il suo cinema Roman Polanski parte da precari “castelli” esistenziali per mostrare come la realtà quotidiana si disgreghi lentamente sotto l’insinuarsi del fantastico e dell’incubo. Qui va in pezzi il mondo razionalistico di Corso, che si muove sì nell’universo “magico” degli antichi libri ma secondo una logica utilitaristica (all’inizio del film viene definito “avvoltoio”); non è interessato al loro valore d’uso, ma di scambio; e dovrà apprendere del “Le nove porte” il nero valore d’uso.
Un altro tema polanskiano è il disorientamento dello straniero (su cui il regista ci ha fornito variazioni memorabili, da “L’inquilino del terzo piano” a “Frantic”): qui lo spostamento filosofico-ideale, dal pragmatismo americano all’occultismo europeo, si riflette sul piano geografico: l’Europa, che pure Corso ben conosce, gli diventa estranea e fantastica. Polanski crea, al suo solito, un’atmosfera malata e oppressiva, un senso di ambiguità diffusa e persistente. E’ un mondo tetro e minaccioso, il vero mondo del diavolo. In questo lo serve assai bene la fotografia del grande Darius Khondji, con la cupezza dei colori spenti e cinerei, illuminata soltanto dal bagliore diabolico del fuoco (e del tramonto). L’uso del grandangolo dilata gli spazi chiusi, rendendoli inquietanti. La macchina da presa è, vorrei dire, oscenamente mobile, nel senso che pare dotata di un’ambigua vita propria, “ci guida”, in una confusione di oggettivo e soggettivo. Una figura significativa del film è il dettaglio: le diaboliche incisioni alla lente d’ingrandimento, gli splendidi occhi di Emmanuelle Seigner, la materialità della grana della carta, o della pelle nuda di Lena Olin.
E’ un’ossessione del cinema di Polanski il rapporto amoroso e sessuale visto come rapporto di potere (collegato all’attrazione/paura nei confronti della donna): che qui emerge nei personaggi di Lena Olin e di Emmanuelle Seigner, figura misteriosa e ambigua salvatrice (come in “Frantic”), che plana dall’alto come un angelo. Ma non è un angelo: da notare il rapporto sessuale alla luce del castello in fiamme, con le espressioni dei due, o, prima, il perverso sguardo di desiderio erotico collegato al sangue sul suo viso (e quel “battesimo” blasfemo del sangue di lei spalmato sulla fronte di lui).
E’ interessante, nell’opera polanskiana, un senso di paura, uno sguardo angoscioso sulla vecchiaia, incarnazione/simbolo di un potere demoniaco. I vecchi pericolosi e ambigui che popolano i suoi film, ma anche i vecchi oggetti senza età del castello gelato di “Per favore non mordermi sul collo”... Tutto ciò lo ritroviamo ne “La nona porta” tanto nelle figure di Balkan/Frank Langella, della baronessa, dei due librai spagnoli quanto nelle cose, antichi libri, carte segrete, scienze proibite e dimenticate. Sia nella vecchia carta che nella pelle giovane si annida il Male.

(Il Nuovo FVG)

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