martedì 8 gennaio 2008

Il pianista

Roman Polanski

“Occhi che videro” è il bellissimo titolo di un documentario di Daniele Segre dedicato alla cinetecaria Adriana Prolo (se poi sia quello di qualche film del passato, lo ignoro). “Occhi che videro”: se lo richiamo in quest’occasione, è perché mi sembra il vero titolo che introduce al capolavoro di Roman Polanski “Il pianista”.
Non gli occhi febbrili del pianista ebreo polacco Szpilman (Adrien Brody): parlo degli occhi di Polanski, che da bambino a Cracovia “ha visto” - c’è una scena insostenibile nel secondo capitolo della sua autobiografia (edita in Italia da Bompiani). Dichiaratamente “Il pianista” non è un film autobiografico - ma in un senso più profondo sì.
Polanski è uno dei grandi registi fantastici del cinema, ma uno si aspetterebbe che non ci fosse spazio per il fantastico in un film sulla Shoah. E’ così nel senso dell’inesorabile realismo storico, che per crudeltà ricorda fra i film polanskiani “Macbeth”; ma Polanski sa bene come la ferocia della realtà stessa si rovesci in assurdo (nessun perverso Ionesco avrebbe potuto inventare la contabilità dei campi di sterminio). Ovvero, nel momento che la realtà impazzisce la follia diventa reale; così Polanski riporta nel terreno fattuale e storico il surreale e il grottesco che attraversano il suo cinema. Sarebbe un determinismo sciocco concludere che così ce ne indica la fonte; certo, ce ne indica “una” fonte. Riporta l’angoscia dalla trasposizione fantastica alla realtà - in questo senso “Il pianista” è un viaggio psicoanalitico.
Il grottesco attraversa tutto il film; il suo simbolo potrebbe essere la gigantesca latta di cetrioli agrodolci che il pianista si porta assurdamente e “comicamente” dietro anche durante l’incontro coll’ufficiale tedesco; e come non ricordare l’ossessione polanskiana per gli oggetti cui ci si abbarbica nel naufragio (pensiamo per esempio alle tragiche ridicolaggini di Donald Pleasence in “Cul-de-sac”).
Tutto il cinema di Polanski sembra convergere ne “Il pianista” come gli affluenti in un fiume. Guardate quei soldati tedeschi che costringono gli ebrei a ballare: c’è una scena moralmente molto simile ne “L’inquilino del terzo piano”, ch’era finora la più terribile illustrazione polanskiana della malvagità. In Polanski è centrale il concetto del male e dell’assurdo come tessitura dell’universo: la nostra precaria concezione della realtà si disgrega sotto l’insinuarsi dell’incubo. E’ esattamente quanto succede ne “Il pianista” agli ebrei, che non si ribellano (nel film si discute al proposito) perché incapaci di afferrare razionalmente ciò ch’è razionalmente inconcepibile. Il mondo va a pezzi, e qui compaiono le due grandi illustrazioni antitetiche polanskiane dell’orrore di vivere: la convivenza forzata (col ghetto sovraffollato che diventa una specie di parco divertimenti del demonio) e la solitudine, con Szpilman che si aggira in una Varsavia distrutta - paesaggio apocalittico e postatomico - barbuto, capelluto, zoppicante, come un uomo delle caverne.
C’è una scena sommessa e capitale in cui la famiglia Szpilman prima di essere avviata al campo di sterminio si divide uno zuccherino comprato a peso d’oro. In un regista cristiano, in Bresson, sarebbe un’Ultima Cena. Ma qui è semmai il (non meno alto) concetto pagano di un piccolo piacere prima della distruzione. Polanski non crede in Cristo né in Mosè. Come ha scritto assai bene Grzegorz Franczak su “Nickelodeon” 102, Spielberg in “Schindler’s List” cerca di inserire il racconto nell’ordine morale: “in quell’ordine il giusto si salva”; mentre in Polanski Szpilman viene salvato per caso, e il giusto che lo ha salvato morirà in un campo di prigionia sovietico. Non c’è salvezza in Polanski se non per il cieco gioco del caso (a momenti Szpilman viene ucciso dai polacchi, che lo scambiano per tedesco); e la salvezza riproduce una circolarità: alla fine del film Szpilman suona alla radio di Varsavia esattamente come all’inizio (a parte la scena conclusiva del concerto, che è apertamente metacinematografica). Nessun viale alberato qui a schermare l’orrore.

(Il Nuovo FVG)

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