martedì 8 gennaio 2008

La nobildonna e il duca

Eric Rohmer

Il geniale film di Eric Rohmer “La nobildonna e il duca” è in un certo senso un ritorno alla forma di cinema molto depurata dei suoi primi film. Rohmer ama le discussioni, il dialogo, le tesi, il progetto. E il duca di Orléans (si narra del suo rapporto con l’ex amante Grace Elliott durante la rivoluzione francese) è il classico egocentrico “artefice di progetti” rohmeriano.
Come Kubrick Rohmer è un illustratore di progettualità fallite. Apparentemente, la ragione contro la passione e il caso. Ma in realtà la “raison” in Rohmer appartiene essa stessa a queste forze: mira alla purezza dell’astratto ma è costituita da passione celata, falsa coscienza, compromesso, boria di sé. Per questo Rohmer sprezza il giacobinismo, quest’impasto di presunzione intellettuale e violenza bruta. La mostruosità dei sanculotti è, nel film, la rivoluzione ricondotta alla sua essenza. La battuta di Grace Elliott contro gli illuministi non è casuale: denuncia precisamente come l’astrattezza geometrica del progetto si materializzi nell’inumanità degli esiti. Rohmer preferisce le donne agli uomini proprio perché sono più “casuali”, più in sintonia col flusso delle cose, meno frenetiche dei grandi piani.
A differenza del “Napoléon” di Gance, appena rivisto alle Giornate del Cinema Muto, dove è Storia anche ordinare alla locanda “Pane, olive e silenzio!”, qui la Storia non c’è. E’ programmaticamente risolta nell’immediatezza. Il solo riferimento alla Storia in atto è in una frase di Orléans, il pianificatore fallito. Nella rivoluzione francese Rohmer ci mostra con acutezza la nascita del totalitarismo moderno, forme ed effetti: dalla menzogna obbligata all’insicurezza permanente. Qualcuno ha detto che la democrazia è un paese dove, se bussano di mattina presto, è il lattaio. Rohmer struttura il film sull’opposizione interno/esterno sviluppando la paura della continua irruzione del secondo nel primo (e gioca fra claustrofobia e agorafobia, ma questo richiederebbe troppo spazio qui).
Gli esterni hanno per caratteristica i “tableaux”. Con un uso splendidamente innovativo del digitale, “La nobildonna e il duca” inserisce i personaggi in quadri d’epoca. Non è illusionismo: non intende assolutamente “vivificare” i quadri negandoli come tali. Anzi Rohmer mostra la pittura, esibisce volutamente la materialità della pennellata densa (la scena della breccia nel muro), la tessitura della tela; un antinaturalismo che richiama il suo “Perceval” del 1978. Nei quadri i personaggi non solo si aggirano ma entrano ed escono da case e vie (una tela ha dunque delle aperture? Rohmer restituisce alla pittura la tridimensionalità del suo oggetto). Oltre all’esibizione della pittura, paradossalmente rinforzata attraverso l’apparente negazione, c’è qui un gusto del mostrare cinematografico, c’è l’occhio di Méliès, che possiede lo stesso concetto di magia “esibita”.
Tutto ciò non è presente negli interni; però vi viene richiamato, in modo che l’opposizione visiva non diventi troppo radicale. Viene utile il gusto settecentesco per l’intonaco affrescato in modo illusionistico, che riproduce in “trompe l’oeil” false modanature. Ma si osservino anche le vedute dalle finestre sul giardino: non solo una veduta dipinta, come è logico, ma non digitale, quasi grossolana: teatrale.
Ecco un altro elemento base, quello teatrale (fin dall’uso della parola scritta, dalla memorialistica di Grace Elliott, in funzione drammatica, cioè pronunciata). “La nobildonna e il duca” usa il teatro in funzione di una “mise en scène” quasi epica in senso brechtiano (rinforzata dall’uso delle didascalie); ove però cala l’elemento naturalistico e palpitante dell’interpretazione. Fra mille richiami possibili (anche la grande scena dell’esecuzione del re, praticamente recitata davanti a un fondale), da citare soprattutto quelle finte dissolvenze che non sono dissolvenze ma uno spegnersi dell’illuminazione.
“La nobildonna e il duca” è importante quanto le opere didattiche televisive di Rossellini; ma è meglio di Rossellini, perché non ha la concezione ingenua della ricostruzione “come a esserci”. Rohmer ci mostra come fare il vero cinema storico.

(Il Nuovo FVG)

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