martedì 8 gennaio 2008

La meglio gioventù

Marco Tullio Giordana

Dalla biografia del personaggio, l’autobiografia di un’epoca. Progetto ricorrente del cinema italiano, più volte tentato, spesso fallito (Scola...), ma un successo per Marco Tullio Giordana col bellissimo “La meglio gioventù”. Realizzato per la Rai come film tv, esce prima in due parti nelle sale. Giordana padroneggia felicemente la dimensione larga e fluida del romanzo televisivo nel disteso racconto, abilmente interlineato, della vita e degli affetti dei fratelli Nicola e Matteo nell’arco di quarant’anni, dal 1966 al 2003; e nella tessitura riesce effettivamente a materializzare la storia recente della nazione (laddove nel precedente “I cento passi” alla concretezza del percorso individuale di Peppino Impastato corrispondeva un quadro storico - il “Sessantotto” - generico e abbozzato).
Popolano “La meglio gioventù” personaggi concreti, autentici, dall’identità viva e drammatica, che sa esprimersi con naturalezza anche sul ghiaccio sottile del dialogo (il pericolo numero uno nella fiction italiana d’oggi, comprese altre sceneggiature di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, che certo con questo film firmano il loro miglior lavoro). Entro una bella coralità d’interpretazioni, eccellenti Luigi Lo Cascio/Nicola e Alessio Boni/Matteo, capaci di avvolgere tutte le sfumature del tempo che passa attorno all’unità coerente del personaggio. Adriana Asti nel ruolo della madre trova la parte della sua vita. Bisogna citare almeno Jasmine Trinca/Giorgia e Sonia Bergamasco/Giulia. E poi un felice uso di volti di caratteristi (o presi dalla folla) viene a concretizzare, per esempio, lo humour nero dell’interrogatorio del poliziotto al contadino siciliano, con echi di Leonardo Sciascia, o la drammaticità della partecipazione dei matti nel processo allo psichiatra torturatore.
Questo film apertamente giocato sui sentimenti è attraversato da un’ammirevole sobrietà. Sequenze quali l’incontro in carcere della brigatista Giulia con la figlia bambina, o l’annuncio per lettera a Nicola della morte della madre, non soffrono mai di quella prosecuzione un po’ compiaciuta che le farebbe sfociare nella categoria del patetico: lo stacco arriva “chirurgicamente” un attimo prima, lasciando così alla commozione la sua dignità. E qui si offre l’occasione per menzionare il magistrale montaggio di Roberto Missiroli.
L’impianto narrativo misurato e convincente non rinuncia a soluzioni originali, fortemente espressive, come la magnifica inquadratura dall’alto di ombrelli aperti - quasi astratta - dopo la pagina del suicidio; l’audace dettaglio del riflesso dei binari negli occhiali neri di Giulia, per la prima volta fuori dal carcere; o - nella disperata uscita di Giorgia dall’ospedale psichiatrico - l’inquadratura dal basso, che usualmente serve a magnificare il personaggio ma qui ne esprime il turbamento, e anticipa l’atmosfera “eerie” del deposito dei treni.
Il perno morale del film è una riaffermazione del principio della continuità familiare - “lasciare una traccia” - collegato a quel concetto di giocarsi con dignità la vita (come dice la splendida poesia americana, di autore non nominato, letta ad alta voce a Giorgia all’inizio del film) che assume una valenza etica. Di qui il dialogo, tema di base del film, sulla natura dell’Italia, sulla possibilità o meno di vivere civilmente in questo paese: che non tocca mai la retorica dell’orazione civile, bensì serba una sensibile aderenza all’autenticità.
Soprattutto l’importanza de “La meglio gioventù” sta nel mantenere un’altezza di sguardo. Ovvero una capacità di ampliare la propria interrogazione dei fatti, e quindi la loro ricostruzione, a una dimensione che vorrei chiamare collettiva e nazionale - ciò che significa considerare le diverse ragioni che si urtano nell’arena della storia: non farsi neutrale, ma rifiutare quella semplificazione ideologica che per forza si tradurrebbe in limitazione. Ecco di dove viene al film quel respiro storico che lo rende maestoso.

(Il Nuovo FVG)

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