martedì 8 gennaio 2008

Il tempo dei cavalli ubriachi

Bahman Ghodabi

Si diventa adulti presto nei villaggi di confine del Kurdistan iraniano. Quel che più colpisce nel bel film iraniano, parlato in curdo, “Il tempo dei cavalli ubriachi” di Bahman Ghodabi è lo sguardo serio, l’aria quietamente vissuta, esperta e silenziosa, del bambino che ne è protagonista e della sua sorellina. Come già per l’Ivan di Andrej Tarkovskij, per fare un esempio assai alto, l’infanzia è un lusso che non possono permettersi.
Il racconto si organizza in ampli cerchi che si intersecano: la vita di questi bambini resi adulti dalla vita (il maschio diventa capofamiglia dopo la morte del padre su una mina); il problema di prendersi cura di un fratello nato deforme, gravemente malato e impossibilitato a muoversi, che i due devono portarsi dietro proteggendolo e curandolo; il tragico “mestiere di vivere” del contrabbando sulle montagne. Molto rimane implicito, nel sottotesto: è tutta una storia data per accenno come in uno strettissimo scorcio quella della sorella minore col suo desiderio dello studio: emerge solo la richiesta di quaderni e il vanto di un bel voto a scuola (i quaderni sono un elemento ritornante nel film, sempre espresso con una leggerezza oggettivata che sfugge il pericolo del simbolico). Il film dipinge in modo vivido e dolente la quotidianità del contrabbando, la minaccia delle mine, gli agguati, i posti di blocco e le perquisizioni, gli imbrogli da parte dei capocarovana, le traversate coi muli carichi che barcollano sotto il peso; per farli resistere al freddo e alla fatica, ai muli si fa bere alcool versandolo a bottiglie nell’acqua - e come la bevono avidamente -, e il rischio è di farli bere troppo ubriacandoli. Così sarà provocata la rovina della carovana in un agguato, nella grande sequenza finale.
S’imprime con particolare forza nella memoria la figura del fratello deforme, bambino-rana bizzarramente e dolorosamente espressivo proprio in quella sua “distanza” da contorta bambola vivente. Crea un continuo impressionante contrasto, in un film dove la pura necessità vitale è di essere mobili e veloci, la sua impotente passività per cui deve essere trasportato e maneggiato come un pacco. Nei momenti di caos e pericolo in cui è abbandonato in un canto e aspetta in silenzio che qualcuno si occupi di lui, i suoi occhi neri sembrano attraversare lo schermo.
La fotografia ci dà l’impressione di “sentire” materialmente quest’aria fredda, queste case di sassi, la neve lungo le povere strade del villaggio, gli interni (in cui spicca il poster di un divo occidentale). Alternando momenti concitati a sospensioni temporali sottilmente dolorose, senza mai però compiacimenti lirici, il film posa sui protagonisti e sul loro mondo uno sguardo di quieto realismo (come li seguisse una camera a mano del cinéma-vérité), che arriva a inglobare nella sua apparenza documentaria anche gli sviluppi narrativi: come il litigio fra il protagonista e la sorellina, in cui appare in controluce l’essenza infantile negata, oppure tutta la storia del matrimonio della sorella maggiore combinato dallo zio-tutore, e dell’inganno quando le donne della famiglia in cui entra d’arrivo non vogliono accogliere, come nei patti, il fratello deforme. Inutile richiamare qui quell’approccio diretto alle cose che caratterizza il cinema iraniano e che trova il punto più alto nello sguardo “rosselliniano” di Kiarostami.
Il realismo del film non si esaurisce nella veridicità del naturalismo descrittivo, che da sola risulta sempre alquanto piatta e didattica. Nel finale in particolare, con la distruzione della carovana, si eleva a un livello visionario, con la gente che rotola scendendo a precipizio per la collina e i muli ubriachi coperti inutilmente di botte per farli alzare (“Gli abbiamo dato troppo da bere”). E’ il paradosso della realtà inconcepibile: l’assurdo tragico che il realismo fa sorgere dal nudo dato di fatto di una realtà irreale.

(Il Nuovo FVG)

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