Massimo Garlatti-Costa
E’ un piccolo capolavoro di inventiva salace “Buris - Libars di scugnî vignî” di Massimo Garlatti-Costa, “mockumentary” (falso documentario) in forma di servizio televisivo sull’ascesa e la crisi di una casa di produzione di film porno friulani che ha rilanciato l’economia del paese immaginario di Buris (gl’interpreti principali, perfetti, sono Daniele Poiana, il produttore, Mario Nicoloso, il porno-divo, e Giorgio Cantoni, l’intervistatore).
Swiftianamente, l’ironia di base consiste nel trattamento “normale” di un lavoro interdetto, qualcosa che si fa ma non si dice (almeno fuori dalle riviste cinefile). Invece “Buris”, in primo luogo con la sua accuratissima mimesi delle norme retoriche di un documentario celebrativo, imposta un abile gioco di “dentro e fuori” assimilando tranquillamente la produzione di porno a un qualsiasi exploit del “Made in Friuli”. Dico dentro e fuori perché anche l’aspetto di scandalo è tenuto presente: vedi la gustosa figura della madre del pornoattore che si vergogna, non esce più a fare la spesa, e allenianamente si fa intervistare in incognito nella penombra (laddove il padre invidia il figlio che “almancul al tacone”). L’imbarazzo dialoga entro il film col pragmatismo dei paesani intervistati (inutile dirlo, queste interviste quasi neorealistiche alla popolazione sono un’autentica delizia) ed è proprio ciò a dare una tinta di realismo a un paradosso che altrimenti si ridurrebbe ad astratta deformazione.
Il porno friulano prodotto da Toni Cantarut, di cui vediamo alcuni frammenti e molto delle condizioni di produzione (attori, scenografie, packaging), è un porno paesano-ruspante. Fa pensare a
certi vecchi pornosoft bavaresi oppure, in campo hardcore, a “L’albero delle zoccole” di Leo Salemi, immortale risposta all’“Albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi (Salemi chiamò a interpretarlo lo stesso attore, cosa che mandò Olmi fuori dalla grazia di dio). Provoca uno straniamento divertentissimo la trascrizione dei luoghi comuni del porno - in genere (pseudo)patinato - in forma ultrapaesana e (ancora più divertente per noi spettatori locali) ultrafriulana. Sublimi, anche come “pastiche” linguistico, i titoli delle cassette, da “Cumò ti dopri” a “Gangbang tal bar di Mario”, e la trascrizione friulana del vocabolario tecnico del porno, per cui il sottogenere “animal” diventa “nemâl”. Va da sé che noi tutti pagheremmo qualcosa perché esistessero veramente Toni Cantarut e le sue videocassette.
Paradossalmente forse, l’unico serio difetto del film di Garlatti-Costa è un eccesso di pudore. Non che pretendessimo di avere sul serio gli inserti porno (troppa grazia, Sant’Antonio!). Però la preoccupazione - legittima ma troppo evidente - di non offrire il fianco ad attacchi moralistici, di evitare che l’oggetto del discorso trasbordi nel discorso stesso, non solo tarpa un po’ le ali al film impedendo una quantità di possibili sviluppi comici nella descrizione, ma finisce per dare una scoperta aria di finto ai “frammenti” inseriti.
La parodia dell’universo del porno raggiunge livelli rabelaisiani quando Cantarut pretende che il suo divo Vigj Moretto interpreti tutte le parti impostegli, anche facendo il porno gay (ci piacerebbe sentire cosa gli avrebbero risposto John c. Holmes o John Leslie!) - donde la crisi. Perché da Cantarut si lavora in stile mezzo familiare e mezzo giapponese, tutti devono dare il loro contributo senza fare storie (qui salta in mente la confusione di ruoli, da Carro di Tespi, delle compagnie del primissimo cinema, quando gli attori erano ancora anonimi). “Gangbang tal bar di Mario” per esempio è interpretato, lo racconta lei all’intervistatore con timido orgoglio, dalla prosperosa “receptionist” della ditta.
Qui sta il “De te fabula narratur”. In fondo la pretesa di Toni corrisponde parodisticamente a una concezione molto friulana. Voe di lavorà, j ûl! E “Buris” risulta anche uno sguardo parodistico sul friulano, sul suo lavoro, sulla sua psicologia. E’, quello che produce Toni Cantarut, un porno “salt, onest, lavoradôr”.
(Il Nuovo FVG)
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