mercoledì 9 gennaio 2008

La leggenda del pianista sull'oceano

Giuseppe Tornatore

Avrebbe dovuto vincere il jazzista negro. In una sequenza de “La leggenda del pianista sull’oceano” - il passabile film di Giuseppe Tornatore tratto da “Novecento” di Baricco - il pianista di transatlantico Novecento (Tim Roth), nato e cresciuto sul Virginian senza mai metter piede a terra, viene sfidato al pianoforte davanti ai passeggeri da Jerry Roll Morton (Clarence Williams): alla fine, “ça va sans dire”, lo portano in trionfo. Bene, ai tre bellissimi ragtime di Morton Novecento oppone un pezzo di virtuosismo elaborato finché si vuole - ma meno esaltante. Era meglio l’altro.
Questa considerazione mi sembra il punto di partenza adatto per parlare del film perché ci porta a un punto chiave (anzi due: il secondo è che ci si ascolta della buona musica): un virtuosismo un po’ freddo. Tornatore, regista iper-espressivo e alquanto pomposo, conosce bene il mestiere ma assai raramente riesce a commuovere. Anche “La leggenda del pianista sull’oceano” lascia, al massimo, soddisfatti di un meccanismo che funziona. In modo, poi, diseguale e altalenante: la parte più modesta è la prima, col macchinista negro che fa da balia al neonato; più convincenti in seguito le scene di Novecento adulto, con l’ottimo Tim Roth che trova una buona spalla in Pruitt Taylor Vince (Max). “La leggenda del pianista sull’oceano” è una grossa macchina-film, ben curato nella fotografia e nella messa in scena (una lode particolare alla scenografia di Francesco Frigeri), sontuoso come risultati, anche grazie al lavoro al computer di David Bush. Molto “pensato”, il film dimostra ambizioni poetiche un po’ vacue, troppo scoperte. Questo è tipico di Tornatore: che non per niente deriva da Fellini; già in Fellini le ambizioni poetiche risultavano sovente piuttosto scoperte, e kitsch.
Si sente una tendenza al simbolismo magniloquente, la Vita, il Sogno, il Secolo; del resto, un film dove il protagonista si chiama Novecento rischia per forza d’esser pieno di pesanti maiuscole. Gli accenni alla guerra e alla trasformazione del Virginian in nave-ospedale mirano ad allargare la vicenda a una dimensione storica che resta evanescente, perché il film si struttura (legittimamente) su una dimensione esclusivamente esistenziale situata in una specie di punto nodale metafisico: il Virginian del film è un eterno Titanic, anche se non affonda (nota che il capitano si chiama Smith, come quello del Titanic, e gli somiglia pure).
Come tanto (troppo!) cinema italiano, il film di Tornatore abusa della voce off; e questa non è nel nostro cinema una caratteristica stilistica quanto una debolezza di sceneggiatori e realizzatori: impacciati nel far emergere dallo svolgimento quello che vogliono dire, tendono a delegarlo a una voce narrante. Certo nel “Pianista” la dimensione del flashback può giustificarlo; però si noti che la voce off parte pesantemente prima del flashback coi pensieri del narratore Max.
In ogni modo “La leggenda del pianista sull’oceano”, pur non esaltante, non si può definire brutto “tout court”; è senz’altro meglio del mediocre e fasullo “L’uomo delle stelle” realizzato da Tornatore nel 1995. Per lo meno riesce a interessarci ai destini dei personaggi; siamo, se non proprio commossi, almeno simpatetici con Tim Roth; e, ammettiamolo, siamo soddisfatti quando alla fine Max/P.T. Vince se ne va via con la sua tromba recuperata.
Un discorso a parte per noi friulani va fatto a proposito del personaggio del contadino emigrante interpretato da Gabriele Lavia, che nel film racconta di essere friulano ma parla un veneto patocco, già di per sé vagamente macchiettistico. O non potevano, Tornatore e la produzione, informarsi meglio? Avrebbero potuto in alternativa dare un accento friulano al personaggio o trasformarlo con eguale verosimiglianza in un contadino veneto. Invece sembra che si siano detti: Veneto, Friuli, stesso brodo. Un altro esempio della sciatteria, tipicamente romana, del cinema italiano.

(Il Nuovo FVG)

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